Questa è l’ovvia e apparentemente superficiale considerazione che mi sono lasciato sfuggire al termine della mia visita nel territorio del Conegliano Valdobbiadene in occasione di Vino in Villa, evento organizzato dal Consorzio di Tutela una domenica di metà maggio allestendo nelle sale del Castello di San Salvatore di Susegana un grande banco di degustazione di circa 200 Prosecco, serviti e illustrati direttamente dai 65 produttori presenti.
Degustazioni a parte però, ciò che mi ha permesso di prendere coscienza della qualità e serietà della Docg riconosciuta nel 2009, che delimita nei 15 comuni collinari e pedemontani della provincia di Treviso la produzione del Prosecco Superiore, è l’affascinante asprezza e ripidità dei vigneti, che arrivano fino a quota 500 metri con pendenze che talvolta superano il 70%, pressoché completamente inerbati per preservare e sostenere queste colline: una vera e propria “viticultura eroica”, abbinata all’orgoglio dei produttori di abitare e lavorare in questo territorio che non scalfisce minimamente il loro senso di ospitalità e disponibilità.
Un territorio dal fascino indescrivibile, con i vigneti arroccati al cospetto delle prealpi nella zona più settentrionale di Valdobbiadene, puntellati da svariati castelli e rovine di origine longobarda, oppure a totale rivestimento delle innumerevoli “gobbe” che si incontrano discendendo verso Conegliano, città dove nel 1876 all’Istituto Cerletti nacque la prima scuola enologica italiana e dove il professore di chimica Antonio Carpenè insieme ad Angelo Malvolti ad inizio del ‘900 diede un contributo sostanziale alla nascita del vino come lo conosciamo oggi (prima etichetta di Prosecco datata 1928).
Poco più di 6.000 ettari vitati sparsi nei comuni di Conegliano, San Vendemiano, Colle Umberto, Vittorio Veneto, Tarzo, Cison di Valmarino, San Pietro di Feletto, Refrontolo, Susegana, Pieve di Soligo, Farra di Soligo, Follina, Miane, Vidor e Valdobbiadene, piantati su terreni poveri, residui glaciali ricchi di arenaria, ciottoli e sabbia, sfruttando avvallamenti, sacche o direttamente a “ritocchino” lungo le irte colline e coltivati tipicamente “a doppio capotorto” (spalliera doppia), evitando il più possibile un rifacimento totale di un vigneto a favore di una sostituzione puntuale delle piante morte o malate.
A testimonianza di un’incredibile frammentazione, il territorio vitato è distribuito tra ben 3.000 viticoltori, spesso coltivato come un secondo lavoro con la meticolosità ed impegno che necessita un hobby ben remunerato, specie quando si conferiscono le uve ad uno dei 168 produttori in base ad accordi vecchi di decenni.
Circa 70 i milioni di bottiglie prodotte (meno di un terzo della produzione complessiva del Prosecco Doc, valutata sui 230 milioni nella vendemmia 2012 ma stimata in 400 a causa di una superficie che conta 9 province ed oltre 600 comuni tra Veneto e Friuli), la metà commercializzata all’estero (quota aumentata del 100% nell’ultimo decennio e destinata a lievitare ulteriormente), Germania e Stati Uniti in primis, nelle versioni Spumante, che rappresenta quasi il 90% della produzione, Frizzante e Tranquillo.
L’uva utilizzata deve essere almeno per l’85% del vitigno Glera, vendemmiata esclusivamente a mano, associata alle varietà locali Verdiso, Bianchetta, Perera, Glera lunga oppure (ahimè…) agli internazionali Pinot e Chardonnay.
Il disciplinare del Prosecco Superiore ammette le tipologie Brut (residuo zuccherino da 0 a 12 g/l), Extra Dry (12-17 g/l) e Dry (17-32): nei miei assaggi ho riscontrato sommariamente un dosaggio contenuto nei 10 grammi/litro, confermando una certa tendenza attuale a privilegiare sapidità e freschezza nella beva rispetto a una certa opulenza e amabilità, fenomeno meno evidente però nei produttori più indirizzati verso l’estero, dove è noto il fenomeno del bere un bicchiere di vino senza particolari abbinamenti, al contrario della tradizione italiana.
Discorso a parte per il Cartizze, al vertice della “piramide qualitativa” della Docg, per cui è prevista la produzione massima di 120 quintali/ettaro rispetto ai 135 del Conegliano Valdobbiadene, raccolti esclusivamente nei 107 ettari di vigneto che tappezzano uniformemente l’omonima collina che abbraccia le località Saccol, Santo Stefano e San Pietro di Barbozzo, tutte all’interno del comune di Valdobbiadene, dove la frammentazione raggiunge livelli di capillarità estremi, essendo ben 166 i proprietari terrieri.
Qui la versione è prettamente Dry, dal momento che il disciplinare prevede residuo zuccherino minimo di 14 g/l, rivelandosi ottimo come aperitivo o a piatti esotici o piccanti, meno a mio avviso da accompagnare dessert o piccola pasticceria, sia alla crema che secca, anche se in alcuni casi ho riscontrato dei Cartizze pressoché “secchi”, in particolare quello prodotto da Silvano Follador, produttore anche di un formidabile Dosaggio Zero Metodo Classico e di un Brut Nature.
Sempre ai fini di valorizzare la tipicità e unicità del Conegliano Valdobbiadene e le differenze tra i territori di coltivazione dati principalmente dal terreno e microclima, il disciplinare della Docg, alla stregua dei “Cru” presenti in altri territori, ha inserito il concetto di “Rive” (termine che nella parlata locale sta a indicare i vigneti posti in terreni scoscesi): distribuite su 12 comuni, sono così ben 31 le frazioni specificabili in etichetta, con le più rinomate Rive di Farra di Soligo, Rive di Corbeltaldo, Rive di Rua, Rive di Collalto, Rive di Santo Stefano, Riva di Soligo, Rive di Solighetto, Rive di San Pietro di Barbozza, Rive di Col San Martino, Rive di Ogliano e Rive di Refrontolo.
Fin dalla sua nascita, datata 1962 per mano di 11 produttori, il Consorzio ha preso in esame il discorso “tutela” puntando esclusivamente sulla qualità del vino e sulla bellezza e unicità del territorio. Il peso e l’importanza dell’associazione sono cresciuti negli anni, tanto da rappresentare oggi con le aziende aderenti circa il 90% della produzione. Il concetto di qualità e unicità è stato ribadito più volte nel corso del nostro tour sia dal direttore Giancarlo Vettorello sia da Franco Adami, produttore che da sempre ha creduto nelle potenzialità e delle divergenze del Prosecco Superiore rispetto al “semplice” Prosecco.
“E’ molto importante identificare con chiarezza il nostro prodotto con la zona Valdobbiadene o semplice Conegliano in etichetta, diventando un sinonimo di prodotto di qualità, concetto che finora è stato più compreso in Italia che all’estero, dove Prosecco è un brand che identifica uno stile di vino da consumare fresco, piacevole, primaverile e spesso economico” – tengono entrambi a sottolineare – “Abbiamo però voluto arricchire questo concetto qualitativo, già ben delineato dal disciplinare della Docg, con un discorso salutare, stilando un protocollo volontario per evitare l’uso nel vigneto e in cantina di prodotti nocivi alla salute, con dei focus dedicati al mondo biologico curati direttamente dal Consorzio tramite l’enotecnico Filippo Taglietti, insieme all’Università di Padova e l’Istituto di Conegliano, con l’obiettivo di limitare, utilizzandoli meglio, i prodotti di trattamento per ottimizzare efficacia e costi, come l’installazione ad esempio di sistemi elettronici per monitorare le condizioni ambientali”.
“Altro discorso che stiamo sviluppando è la clonazione dei vitigni per la conservazione della biodiversità del vigneto nel comprensorio collinare, iniziata dal recupero di circa 600 ceppi di vecchie viti su diretta segnalazione dei viticoltori, procedendo quindi alla riproduzione massale in vivaio, comprese viti coltivate selvatiche e poi innestate. Si è proceduto quindi all’estrazione di 5 viti di oltre 70 anni sulla base di una selezione genetica, di sanità e di resistenza alle malattie per ottimizzare la produzione di uva, prendendo in esame le caratteristiche del grappolo, il più possibile spargolo, e la quantità di grappoli per tralcio. In questo momento, giunti al terzo anno dei cinque di sperimentazione, si sta testando la qualità dell’uva”.
Degustazioni
Dipenderà dal mio palato “piemontese” avvezzo ai tannini decisi del Nebbiolo e alla fresca vena acida della Barbera, ma nel parco degli oltre 200 Conegliano Valdobbiadene Docg, onestamente pressoché tutti di ottima fattura, ho maggiormente apprezzato le versioni “brut” con residui zuccherini non oltre i 10 grammi/litro e una fresca vena sapido minerale.
Ottimi pertanto i Prosecco Superiore di Giovanni Frozza di Colbertaldo di Vidor, in particolare il Brut Rive di Corbertaldo, naso floreale, palato ricco, minerale, seguito dall’Extra Dry “Col dell’Orso”, sapido e mai stucchevole nonostante la discreta abboccatura.
La lista delle mie preferenze prosegue con il Valdobbiadene Prosecco Superiore Brut “Fagher” prodotto dalla giovane e dinamica azienda Le Colture di Santo Stefano di Valdobbiadene, 40 ettari suddivisi in ben 16 appezzamenti tra Pieve di Soligo e San Pietro di Feletto, più circa un ha di Cartizze in località Santo Stefano, gestiti dal papà Carlo in collaborazione con i figli Veronica, Silvia e Alberto e l’enologo Daniele Dalsecco. Questo vino, prodotto in 120.000 esemplari con il 90% di uva Glera ed il 10% di Chardonnay vendemmiati sull’altopiano di San Pietro di Feletto a circa 300 metri di altezza, rispecchia appieno i miei gusti: invitanti e freschi aromi agrumati al naso, grande sapidità ed eleganza, non teme abbinamenti con antipasti di pesce, verdure, risotti con erbe spontanee, piatti di pesce magro al forno, in pratica ideale a tutto pasto!
La stessa eleganza e piacevolezza si ritrova sia nella versione Extra Dry “Pianer” che nel Dry “Cruner”, ma in particolare nella cremosità delle 85.000 bottiglie di Cartizze, con un residuo che si attesta sui 24 g/l assolutamente non stucchevole grazie all’ottima vena acida.
Bastano poche parole scambiate con Franco Adami per comprendere al volo la sua convinzione nell’unicità del Valdobbiadene Docg, in particolare nelle espressioni “Rive”, individuata già da suo nonno Abele nel 1933, quando vinificò per la prima volta separatamente il Vigneto Giardino acquistato una dozzina di anni prima per inviarlo a Siena alla 1ª Mostra dei Vini Tipici d’Italia.
Ora come allora Franco, enologo dell’azienda a Colbertaldo di Vidor, insieme al fratello Armando producono questa ottima espressione Dry di Prosecco Superiore Rive di Corbertaldo, morbido ed asciutto allo stesso tempo, con una cura quasi maniacale del “Vigneto” aziendale.
I miei favori si dividono equamente con il Brut “Col Credas”, novità della vendemmia 2011, appena 7.000 bottiglie ottenute da un solo vigneto a Rive di Farra di Soligo con uva intera in pressa per un miglior drenaggio del mosto, una versione estremamente secca, con appena 4 g/l di residuo, citrino, sapido, una leggera frustata iniziale sulle gengive che sfocia in un finale piacevolmente persistente.
Da vigneti meno aspri e terreni differenti, caratterizzati da una forte presenza di pietra croda, bianca, porosa, di origine calcarea, estremamente drenante, utilizzata per rivestimenti o muretti delle case di San Pietro di Feletto, grazie alla preziosa opera di artigiani scalpellini, deriva il Brut Rive di Rua di Bepin de Eto, da un giovane vigneto di un corpo unico sito in frazione Rua di San Pietro di Feletto di appena 2 dei 100 ettari di questa azienda a conduzione famigliare guidata in prima persona dall’enologa Cristina Ceschin e dal marito Nicola Ragazzo: al suo secondo anno di produzione, l’unico Rive di Rua esistente si presenta cremoso ed avvolgente, perlage fine e persistente grazie a una presa di spuma che si aggira sui 40 giorni e che invita alla beva, come d’altronde la versione Extra Dry di appena 14 gr/l ed il più semplice Brut (6 g/l).
Dello stesso produttore tra l’altro ho degustato un ottimo Greccio Bianco Colli di Conegliano Docg 2011 proveniente dal vigneto di fronte a casa, ottenuto da Incrocio Manzoni 70%, Pinot Bianco e Chardonnay vinificati insieme, alla pari del Greccio Rosso Colli di Conegliano Docg 2009 da Merlot 40%, Cabernet 50% e Marzemino 10%, anch’essi vinificati insieme, fermentati circa 20 giorni, affinati in legno per un anno e almeno un altro in bottiglia per garantire una buona freschezza, pienezza e complessità.
Netti e nitidi i Conegliano Valdobbiadene di Biancavigna, azienda di Farra di Soligo dove Enrico Moschetta dal 2004 cerca di valorizzare i 10 ettari di proprietà della sorella Elena, producendo una versione Brut e un Extra Dry in cui la sapidità e la freschezza vanno di pari passo con una dolcezza contenuta.
Di stampo più morbido ed amabili i vini di Borgoluce, azienda nobiliare di Susegana di proprietà di tre delle contesse di Collalto che si estende complessivamente per circa 1.200 ettari di cui appena una settantina vitati, al cui interno si sviluppano una miriade di attività e coltivazioni, frutteti, pascoli, boschi, allevamenti, mulini e caseifici, tra cui emerge l’Extra Dry Rive di Collalto in cui l’enologa Lisa Confortin riesce a preservare la mineralità del vigneto collinare dal suolo argilloso con un elevato contenuto di carbonato di calcio.
Il cugino di Franco Adami, Francesco, è invece l’enologo da 30 anni della Bellussi, azienda diretta da Enrico Martellozzo che rientra nel settore imbottigliatori in zona Docg di medie dimensioni, circa 600.000 bottiglie, utilizzando vino o mosto di una quarantina di conferitori storici. Con la loro Gran Cuvée da diversi anni si brinda nella serata inaugurale della Biennale di Venezia e si sponsorizza il premio Belcanto assegnato al Teatro di Treviso al miglior esordiente nella lirica, marchio che battezza anche corretta e piacevole linea dedicata al Valdobbiadene Docg, dalla più semplice versione Brut all’accattivante Cartizze.
Una storia di imbottigliatori di oltre mezzo secolo e una ricca gamma di prodotti contraddistingue la Bortolotti dei fratelli Emanuela e Bruno Bortolotti, di cui ho apprezzato il Brut Montagnole Rive di Santo Stefano, ottenuto vinificando un ripido vigneto di meno di un ettaro esposto a nord ovest di Glera in purezza su un terreno di origine morenico che il proprietario conferisce dal 1948; l’Extra Dry Piai Alto Rive di Rollè 2011, stesse caratteristiche del precedente ma su un terreno con pochissima terra e molto calcareo, e l’Extra Dry 47, con un 10% di Pinot Bianco per donargli maggior freschezza per bilanciare i 17,5 g/l di residuo e pizzico di sapore di mandorla finale, prodotto per la prima volta nel 1991 in onore del nonno Umberto, scomparso nel 2001.
( Fonte Luciano Pavesio c/o Lavinium )