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VINO BIOLOGICO E VINO NORMALE

 


 


Anche nei supermercati si può trovare ora in vendita il vino biologico, come è sbrigativamente chiamato dai consumatori, che lo ritengono indenne da trattamenti.


In realtà il vino biologico ancora non esiste e basta guardare l’etichetta per accorgersi che si tratta di vino “ottenuto da uve coltivate con il metodo biologico”.


In altre parole, le uve sono biologiche, il vino no, nel senso che può essere trattato come i vini normali: può essere usato il mosto concentrato per aumentare la gradazione alcolica, l’anidride solforosa per impedire l’acidificazione oppure l’acido tartarico per dare acidità, l’acido sorbico e il sorbato di potassio per dare stabilizzazione, i vari chiarificanti per illimpidire il vino, eccetera.


Tutti questi trattamenti e additivi non devono essere neanche dichiarati in etichetta (tranne i solfiti se superano certe dosi) e, oltretutto, è pure dubbio che in etichetta si possa vantare l’assenza di trattamenti e additivi, sia nel vino biologico sia nel vino normale (una dichiarazione del genere non è stata notata in alcuna etichetta).


Piuttosto, il cosiddetto vino biologico dovrebbe dichiarare in etichetta anche il nome e l’indirizzo del produttore delle uve, ma spesso tale indicazione, che è anche un indizio di correttezza e di garanzia per il consumatore, o è incompleta o manca del tutto.


In ogni caso si potrà parlare di “vino biologico” soltanto quando ci saranno le regole normative per la vinificazione delle uve biologiche.


Fino ad allora il termine non ha neanche un significato categorico per il consumatore perché, rispettando le buone regole tecniche in vigneto e in cantina, nel vino prodotto con uve normali non rimane la minima traccia degli antiparassitari usati per la cura dell’uva, come è stato accertato da diverse analisi chimiche.


In ogni caso, anche il vino da uve biologiche è regolato dalle medesime norme che riguardano i vini normali, quindi la scelta del consumatore è semplificata.


A dire il vero, il problema di scegliere un buon vino è un falso problema, poiché il miglior vino in assoluto è quello che piace, indipendentemente dal prezzo, dalla marca, dal tipo, eccetera. E’ per questo motivo che molti consumatori rimangono delusi nello scegliere vini lodati e consigliati dagli esperti e dalle varie guide.


Comunque, chi non ha ancora una preferenza precisa o, se ce l’ha, è incline a cambiare e scegliere nuovi vini, può rifarsi ad alcuni “indizi” che, fra l’altro, stanno proprio nella disciplina normativa dei vini.


Come primo criterio ci si può lasciar guidare semplicemente dalla classificazione di legge, ma non è affatto un criterio assiomatico.


La legge sui vini DOC, emanata nel 1992, prevede una specie di scala gerarchica, da quelli di maggior pregio a quelli meno pregiati, almeno sulla carta:


 


vini DOCG (denominazione d’origine controllata e garantita);


vini DOC (denominazione d’origine controllata);


vini IGT (indicazione geografica tipica);


vini da tavola col nome dell’uva;


vini da tavola con nome di fantasia.


Teoricamente i primi dovrebbero essere migliori dei secondi, i secondi dei terzi e così via, ma in verità può succedere benissimo l’inverso, anche se per i DOCG la regola è piuttosto attendibile.


Se però in etichetta è indicata una “sottozona” (Comune, frazione, località), il vino merita ulteriore attenzione: quasi certamente significa che proviene da un’area geografica più prodiga di qualità e che la resa massima di uva per ettaro deve essere minore di quella prevista per l’intera zona della denominazione d’origine.


Un indizio di qualità è anche l’indicazione in etichetta della vigna, perché presumibilmente se è nominata è buona, sebbene ultimamente si sia registrata una inflazione delle indicazioni delle vigne.


In ogni caso, va ricordato che se c’è tale indicazione le uve devono provenire soltanto da quella vigna e la vinificazione deve avvenire separatamente dalle altre uve, in quanto, sempre presumibilmente, si tratta di una vigna che dà un prodotto migliore per la conformazione del terreno, l’esposizione al sole, eccetera.


Indipendentemente dalla classificazione per categorie, vi sono ancora altri indizi che aiutano il consumatore nella scelta.


Innanzi tutto, un vino di una certa qualità non sta in scatola, ma in bottiglia di vetro, che è la sua confezione ideale.


Chi non ha esigenze può scegliere benissimo il vino in scatola, che rispetto a quello in bottiglia ha un pregio indiscutibile: chi lo compra, ha la certezza di pagarlo al giusto prezzo, mentre molti produttori dei cosiddetti vini di qualità tengono scandalosamente ed esageratamente alti i prezzi al solo scopo di valorizzare artificialmente le loro produzioni, per gli ingenui che ci credono.


Il secondo indizio è l’indicazione dell’annata, che un produttore serio dovrebbe sempre dichiarare in etichetta, ma molti non lo fanno perché non è obbligatorio, tranne che per i DOCG, per i vini “novelli” e, secondo qualche disciplinare, per alcuni DOC.



Nei semplici vini da tavola, invece, è vietato indicare l’annata.


I vini DOC e IGT senza dichiarazione dell’annata dovrebbero essere scartati, perché non dimostrano correttezza da parte di chi li ha messi in commercio.


Anche come e dove sono imbottigliati ha una certa importanza, quantunque non decisiva: un vino “imbottigliato nella zona di produzione” dà più garanzie e lo stesso vale se c’è scritto “imbottigliato all’origine” o “dal viticoltore” o “dall’azienda agricola”, poiché significa che è stato vinificato e imbottigliato dallo stesso produttore di uve, che può essere anche una cantina sociale.


Questi vini, anzi, non sono affatto da disprezzare, nonostante siano fatti con uve di diversi produttori, perché grazie ad agevolazioni di vario tipo le cantine sociali possono offrire vini a prezzi molto contenuti e di qualità soddisfacente.


A volte, oltre il tipo normale, ne commercializzano uno più qualitativo con un’etichetta diversa, che costa di più e che è ricavato da uve più selezionate. Il consumatore dovrebbe imparare a conoscerli, valutandoli caso per caso, così come dovrebbe imparare a conoscere i vini DOC o tipici diversi dai “soliti” che dilagano nei ristoranti e negli scaffali dei supermercati e dei negozi.


Alcuni termini potrebbero anche soddisfare i gusti personali.


Per esempio, non è obbligatorio dichiarare in etichetta che si tratta di un vino secco o abboccato o amabile, ma se c’è scritto “secco” significa e deve significare proprio che è secco, cioè deve avere fino a un massimo di 4 grammi per litro di residuo zuccherino.


Viceversa, desiderando un vino secco può capitare di comprarne uno che come gradazione alcolica dichiara soltanto “% vol. 10,5 1″, che nasconde un vino amabile, cioè un po’ dolce, in quanto il ” 1″ sta ad indicare che c’è dello zucchero non trasformato in alcol.


Altri termini, come “superiore” o “vendemmia tardiva”, denotano un vino di gradazione maggiore e, del resto, basta confrontare il titolo alcolico, mentre il termine “classico” indica la più ristretta zona d’origine di un vino DOC.


 


( Fonte Sicurezzalimentare )

Roberto Gatti

Giudice degustatore ai Concorsi Enologici Mondiali più prestigiosi tra i quali: » Il Concours Mondial de Bruxelles che ad oggi ha raggiunto un numero di campioni esaminati di circa n. 9.080, dove partecipo da 13 edizioni ( da 9 in qualità di Presidente ); >>Commissario al Berliner Wine Trophy di Berlino >>Presidente di Giuria al Concorso Excellence Awards di Bucarest >>Giudice accreditato al Shanghai International Wine Challenge ed ai maggiori concorsi italiani.

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