I messaggi promozionali fanno sempre meno leva sulle qualità intrinseche dei vini sollecitando più che altro la sfera emozionale. Biologici, biodinamici, naturali, etici, liberi si contendono i favori dei consumatori a colpi di promesse di salubrità, sostenibilità e naturalità
Si inasprisce la querelle fra differenti filosofie di produzione delle uve da vino
C’era una volta il vino. E basta. Il marketing era unicamente basato sul passaparola e chi vendeva vino di ottima qualità lasciava il segno e veniva poi cercato ancora. Chi invece vendeva vinaccio restava uno che vendeva vinaccio.
Magari erano anche i secoli delle prime leggende, come quella ambientata nell’anno 1111 che vuole il vescovo Johannes Defuk, esperto degustatore di vini, anticipare Enrico V di Germania e il suo esercito per segnalare i luoghi ove si trovasse vino di qualità. Giunto a Montefiascone non si sarebbe limitato a scrivere “Est!” (trad. “c’è”) sulla porta dell’osteria, bensì si sarebbe lanciato in un enfatico “Est! Est! Est!”, tuttora sfruttato per ricordare quanto buoni siano i vini della zona. Ancora si dibatte sul numero esatto di punti esclamativi usati dal vescovo-sommelier.
Novecento anni dopo, gli scenari sono alquanto cambiati. Oggi si possono trovare vini da agricoltura biologica oppure biodinamica, ma anche vini “naturali”, “liberi” e finanche “etici”. Ognuna di queste tipologie si contende i favori dei consumatori a colpi di crescenti e diversificate promesse di maggiore salubrità, sostenibilità e naturalità. In pratica, la qualità dei vini è stata progressivamente slegata da ciò che si fa e che si usa in campo o in cantina, venendo misurata più che altro in base a ciò che non si fa e a ciò che non si usa. Nei circhi questo tipo di approccio viene di solito utilizzato dai giocolieri che per stimolare l’attenzione del pubblico anticipano il numero successivo con il noto “Sempre più dificccile!”, dato che oltre a pedalare su una corda, al giro successivo vogliono provarci anche bendati.
I fronti della disputa su chi produca i vini migliori sono quindi finiti al di fuori della bottiglia, perché il vino eccellente pare non sia più quello dal sapore e dai profumi più appaganti, bensì quello con l’impronta carbonica minore, oppure derivato da vigneti trattati sempre meno, o da processi di vinificazione che hanno rinunciato a molti degli strumenti chimico-fisici e biologici che hanno sin qui permesso di ottenere vini straordinari per naso e palato.
Il primo guanto di sfida lo lanciò molti anni fa il biologico, il quale decise di basare la difesa dei propri vigneti quasi esclusivamente su rame e zolfo. Chi usava altri tipi di sostanze restava quindi al palo della simpatia pubblica, marchiato dall’accusa infamante di avvelenare ambiente e consumatori con ignobili e catastrofici veleni fatti dalle multinazionali cattivone. E ancora oggi in certe discussioni su vini “Bio & assimilati” si stimolano snobissimi nasi all’insù quando si esorta a non sfruttare furbescamente il malinteso biologico=non trattato, oppure si ricorda che il rame è un metallo pesante dalla tossicità superiore a molti prodotti di sintesi e lo zolfo deriva per lo più dalla raffinazione del petrolio, alla faccia dell’antipatia per le Sette Sorelle dell’Oro nero e dei tormentoni sull’impronta carbonica.
Poi toccò anche al Bio vedersi superare in contropiede, arrivando prima i biodinamici e poi i “naturali” a contendergli lo scettro di “agricoltura naturale-più-naturale-del-naturale”. I primi ammantando le pratiche di campagna con ritualità fondate sugli insegnamenti astrologico-esoterici di Rudolf Steiner, padre dell’antroposofia. I secondi producendo vini senza usare null’altro che uva. A qualcuno è anche capitato di partecipare a degustazioni di vini ove in mezzo a bottiglie eccellenti ve ne fossero pure di orribili, ma chi ha provato a sottolinearlo si è sentito rampognare dal sommelier “naturalista” perché in realtà non sarebbe stato il vino ad avere odoracci e saporacci, ma sarebbe l’ospite ad aver perso il gusto per i vini autentici, avendo ormai i sensi storpiati dai vini standardizzati da pratiche di cantina “artificiali”. La faccia di bronzo, si sa, talvolta non pare avere limiti.
Come se non bastasse la competizione commerciale già in atto fra “bio-più-bio-del-bio”, ora ci si mette pure Oscar Farinetti ad aprire un nuovo fronte di discussione con il suo “vino libero”. Da genio qual è del business, Farinetti ha rinunciato a piè pari a calarsi nell’agone del biologico, già alquanto sovraffollato e talvolta auto-cannibalizzantesi. Ha così ideato un nuovo tipo di comunicazione, basata sul messaggio di un vino fatto senza usare erbicidi, fertilizzanti chimici e senza aggiunta di solfiti in fase di vinificazione. Vini come “AssenSO2” ne sono l’emblema, ove perfino nella grafica la famigerata solforosa viene sbattuta sotto il naso del consumatore rassicurandolo sul fatto che quel vino ne contiene pochissima e mai di tipo aggiunto.
Ma Farinetti ha fatto anche di più: vetro, carte e cartoni provengono da materiali riciclati, per le stampe si utilizzano inchiostri naturali e la distribuzione ha saggiamente tagliato fuori la Gdo, prediligendo enoteche e ristoranti selezionati, come pure canali alternativi come Ikea.
Tutto molto bello e sagace, quindi, ma di certo, eliminare erbicidi e fertilizzanti chimici non cambia di fatto le produzioni, visto che la difesa fitosanitaria delle chiome viene comunque effettuata, come pure la fertilizzazione può benissimo essere basata su prodotti di matrice organica. Sulla solforosa ci sarebbe poi da discutere, perché questa sostanza viene prodotta naturalmente durante la fermentazione, quindi non è possibile distinguere quella naturale da quella aggiunta. Motivo per il quale le etichette dei “vini liberi” di Farinetti hanno provocato diverse polemiche nel Mondo del vino.
Giusto per fare il punto sul tema SO2, la Legge ammette presenze di anidride solforosa totale di 150 mg/L nei vini rossi e di 200 nei bianchi, diminuiti rispettivamente a 100 e 150 nel nuovo disciplinare del vino biologico. Chi volesse perciò scrivere in etichetta la dicitura “non contiene solfiti” dovrebbe anche garantire meno di 10 mg/L di anidride solforosa. Un limite molto difficile da rispettare, specialmente se, come sostiene Maurizio Gily(1), stimato direttore di “Millevigne”, non si usino uve esenti da residui di zolfo e si aborrano lieviti selezionati proprio per essere “basso-produttori di solfiti”. Dato però che lo zolfo è alla base della lotta anti-oidica nel Bio & Similari, come pure questi lieviti sono visti come fumo negli occhi dai “naturisti”, avere meno di 10 o più di 30 mg/L di SO2 con una fermentazione spontanea sarebbe nella sostanza opera del caso. Tanto è vero che in USA, ove esiste l’etichetta “Organic 100%” riservata ai vini con meno di 10 mg/L, una gran parte dei produttori di vini bio non ci starebbe dentro. Conferme di ciò si ricavano anche dalle analisi effettuate da aziende di alto profilo, le quali trovano nei propri vini, fermentati naturalmente, valori compresi fra i 17 e i 40 mg/L di solforosa(1).
Piaccia o meno, quindi, più si spinge verso la naturalità, più alte diventano le probabilità di avere solforosa in bottiglia. Qualche antiodico di sintesi di più in vigna, come pure lieviti selezionati in cantina, parrebbero infatti una delle vie da seguire per abbassare i livelli di questo conservante naturale. E poi, giusto per polemizzare un filo con gli ultra naturisti, se è vero che la Natura è sempre buona e la “kimica” è sempre cattiva, perché mai farsi tanti problemi se nei propri vini vi è della SO2? Perché i casi sono due: o la solforosa, essendo naturale, non può fare male, oppure la millantata innocuità delle sostanze naturali andrebbe profondamente rivisitata.
Furbizia imprenditoriale e barricate mediatiche
Ovviamente, aprendo una nuova via, Farinetti ha scatenato le prevedibili reazioni di coloro i quali fino a quel momento si erano goduti in esclusiva la rendita di posizione di chi produce vini belli, buoni, bravi, salubri ed eco-compatibili.
Abbastanza piccati appaiono infatti i commenti di Paolo Carnemolla, presidente di FederBio, secondo il quale “I vigneti di vino Libero saranno anche liberi da fertilizzanti e diserbanti, ma non lo sono da insetticidi e antricrittogamici. I solfiti saranno anche il 40% in meno di quanto consentito dalla normativa generale, ma per gli altri coadiuvanti e processi c’è – appunto – libertà”. Questo almeno stando all’intervista rilasciata da Carnemolla a “Il Fatto Alimentare”(2).
Scorrendo ancora le parole del Presidente di FederBio, la Tenuta di Fontanafredda, proprietà di Oscar Farinetti, avrebbe anche annunciato il progetto “Riserva bio” in cui il termine “bio” – sempre secondo Carnemolla – sarebbe associato soltanto al concetto di “CO2 neutral”, ovvero ad emissioni zero di anidride carbonica, restando però un’azienda basata per tutto il resto sull’agricoltura integrata e non certo un’azienda biologica. La cosa non piace quindi per nulla al Mondo del Bio, il quale bolla quella di Fontanafredda come pura e semplice operazione di marketing, la quale “… conta sulle scarse conoscenze agricole e dei processi di trasformazione da parte del pubblico e tenta di accreditare una nuova categoria di prodotto a scapito di altre. La comunicazione al pubblico sul vino Libero – continua Carnemolla – è assai poco trasparente e oscilla tra l’ingannevole e l’insidioso; è anche condita da affermazioni quali ‘Il biologico è un concetto confuso e farmaceutico che non piace a noi gourmet’. Farinetti sta lavorando per introdurre un sistema di certificazione alternativo a quello dei sistemi di qualità regolamentati dalla UE; possiamo quindi concludere che operi anche per disorientare il consumatore, causando grave danno al comparto vitivinicolo biologico”.
Parole di fuoco, quindi, quelle usate nei confronti dell’Oscar Nazionale, il quale tira però diritto sulla propria via adottando l’approccio dantesco del non ti curar di loro ma guarda e passa.
La capillare opera di disinformazione, tramite reiterati messaggi secondo i quali il Bio sarebbe salvifico, mentre le altre forme di viticoltura avvelenerebbero il Mondo, a Carnemolla parrebbe invece sia sfuggita. Della serie, chi la fa l’aspetti.
Sarebbe quindi interessante mettere tutti i contendenti intorno a una tavola rotonda, a discutere sui perché e sui percome i consumatori dovrebbero comprare i loro vini anziché quelli degli altri. Si potrebbero scatenare divertenti gag, con i vari relatori che fanno a gara nella specialità dello sputtanamento reciproco. I biodinamici magari si sottrarrebbero a tale disputa. Loro, forse, si aggirerebbero per la sala brandendo corna di cervo per catturare le energie astrali, al fine di trasferirle poi ai termos per biodinamizzare il caffè del coffee break…
Conclusi quindi gli aspetti puramente commerciali della gazzarra fra produttori in concorrenza fra loro, nella prossima puntata si analizzeranno gli aspetti legati ai reali livelli di salubrità legati al consumo di vino, mentre in quella successiva si approfondiranno le tematiche ambientali legate alle differenti forme di viticoltura. Perché anche sulla salute, sull’ambiente e sull’ecologia si sente dire tutto e il contrario di tutto, creando la necessità di una maggior chiarezza.
E magari anche di una maggiore onestà intellettuale.
2) http://www.ilfattoalimentare.it/vino-naturale-libero-biologico-federbio-marketing.html
( Fonte Agronotizie )