Associazione per delinquere finalizzata all’usura all’estorsione con l’aggravante del metodo mafioso; truffa ai danni dell’Unione Europea e illecito amministrativo: con questa accuse 24 indagati dall’Antimafia di Bari sono finiti in carcere (17) e ai domiciliari (sette). In modo particolare l’applicazione del Dl 231/2001 (che consente di colpire direttamente il patrimonio delle società e quindi gli interessi economici dei soci che hanno tratto vantaggio dalla commissione dei suddetti reati) gli inquirenti hanno disposto il sequestro di beni mobili ed immobili ad un’importante azienda vitivinicola in provincia di Ravenna (“Alla Grotta” srl),
altri sequestri sono stati compiuti anche nel Foggiano e nel Nord-Italia, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di euro. L’operazione “Baccus” è stata condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia
Il 16 novembre del 2010 il boss indiscusso della mafia foggiana, Giosuè Rizzi, veniva scarcerato – avrebbe trovato la morte in un agguato avvenutonel gennaio 2012 scorso –, la possibilità che ritornasse a prendere le redini dell’organizzazione mafiosa aveva spinto gli inquirenti e gli investigatori a monitorare i suoi movimenti. E’ da qui che nasce l’indagine che oggi ha portato in carcere alcuni degli esponenti più pericolosi della “Società foggiana” e che ha confermato la teoria degli investigatori del salto di qualità che la mafia di Capitanata ha compiuto nel campo degli affari, un’attività che consente all’associazione non solo di riciclare il denaro sporco derivante dalle estorsioni e dal traffico di droga, ma di infiltrarsi da attori principali (da veri e propri imprenditori) in uno dei settori economici italiani di maggiore espansione: quello vitivinicolo. Un settore nel quale gli esponenti della mafia foggiana riescono per così dire “a sfondare”, tanto da riuscire ad alterare il mercato nazionale della viticoltura italiana, il tutto grazie alla complicità di un imprenditore vitivinicolo ravennese, molto noto fra gli addetti ai lavori, Vincenzo Melandri, che a Russi di Romagna (Ravenna) è proprietario di un grande e importante stabilimento che produce Mosto Concentrato Rettificato (uno zucchero d’uva che viene ricavato, appunto, dal mosto ed ha grande commercializzazione). Ma l’inchiesta non avrebbe potuto produrre i brillanti risultati ottenuti se non ci fosse stata la coraggiosa denuncia di un viticoltore foggiano che ha permesso di ricostruire l’intera filiera dell’attività delinquenziale. Il denunciante ha raccontato che dopo l’arresto del boss Rizzi era stato Cesare Antoniello – detto “il papa” – a prendere in mano le redini dell’organizzazione mafiosa, era lui che stabiliva sia i tassi di usura (che oscillavano dal 10 al 15% mensili), che le tariffe estorsive da imporre a commercianti e imprenditori. L’uomo non solo ha denunciato di essere vittima di usura, ma ha fornito l’elemento chiave che ha permesso di arrivare a quello che sicuramente rappresenta, in questo momento, uno dei più grandi business della “Società foggiana”. Menti operative di questa operazione Ernesto e suo figlio Mario Lops, ufficialmente imprenditori del settore vitivinicolo della Capitanata, di fatto organici all’organizzazione criminale. I due propongono alla Società foggiana: raccolgono tutti i soldi di provenienza illecita (usura, estorsioni, droga, ma anche quelli derivanti dai punti di raccolta delle scommesse on-line di Alessandro Carniola) e proprio in virtù della loro attività imprenditoriale entrano in contatto con il collega romagnolo al quale propongono un’operazione commerciale sofisticatissima sul piano fiscale. I Lops costituiscono finte società vitivinicole che emettono alla società “Alla Grotta” fatture per la vendita di mosto (senza Iva). In realtà alla società di Melandri non arrivava nessuna merce, ma soldi (quelli dell’importo delle fatture) con corrieri che partivano da Foggia in auto, a questo punto l’imprenditore romagnolo procedeva a pagare con bonifico le fatture maggiorate dell’Iva. In questo modo la mafia foggiana riciclava il denaro sporco e ne ricava l’importo dell’Iva, che su somme notevoli di denaro comportava ricavi considerevoli. Il Melandri a sua volta abbatteva fortemente i suoi ricavi dovendo registrare acquisti di mosto, non solo ma sui quali lucrava i contributi comunitari che in realtà non gli spettavano.
Un sistema collaudato che mai avrebbe potuto portare a simili risultati illeciti se non vi fosse stata anche la complicità di qualche funzionario di banca di Foggia, Ravenna e Corato che non hanno mai segnalato le operazioni quanto meno sospette visto che riguardavano ingenti somme di denaro (anche oltre otto milioni di euro) effettuate da società (le cosiddette “cartiere”, ovvero fittizie che producono solo fatture false) di piccole dimensioni.
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