E’ stato mappato il genoma di 51 vitigni autoctoni italiani: materiale prezioso per migliorare le tecniche enologiche e le produzioni. AgroNotizie ha intervistato Luigi Bavaresco, coordinatore del team di ricerca
( Sono 51 i vitigni autoctoni italiani mappati – Fonte immagine: Agronotizie )
Nel 2003 negli Stati Uniti hanno mappato per la prima volta il genoma umano. Nel 2007 un consorzio italo-francese quello della vite. Oggi un team di ricercatori ha svelato il patrimonio genetico di 51 vitigni autoctoni italiani. Una miniera d’oro che permetterà non solo di avere dei vini migliori, ma che in prospettiva permetterà di ottenere coltivazioni più sostenibili, immuni ad alcune malattie e “geneticamente migliori”.
Lo studio è stato finanziato dal Mipaaf e coordinato da Luigi Bavaresco, docente di viticoltura presso l’Università cattolica del Sacro cuore di Piacenza e già direttore del Cra – Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano. Lo studio è stato la base per la pubblicazione di un libro, “Vitigni italiani – Loro caratterizzazione e valorizzazione”, edito da Gianni Sartori Editore, che raccoglie i risultati della ricerca dandogli un taglio divulgativo. Allo studio hanno partecipato anche il Centro di ricerca per la genomica vegetale del Crea di Fiorenzuala, l’Università di Verona, quella di Milano, la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, l’Università di Udine e l’Istituto di genomica applicata, anch’esso di Udine.
Professore, quali erano gli obiettivi del progetto?
“Lo scopo era quello di mappare il Dna di 51 vitigni, sui circa 500 iscritti al registro nazionale, metà a bacca rossa e metà a bacca bianca, rappresentativi di tutto il territorio nazionale. L’obiettivo primario era risequenziare il genoma delle piante, leggerne cioè l’alfabeto della vita. Inoltre è stato fatto uno studio metabolomico”.
Di che cosa si tratta?
“Significa studiare l’uva alla vendemmia, analizzando tutti i composti chimici presenti. Fare insomma la carta di identità compositiva, con strumentazioni in grado di ricercare anche elementi presenti in quantità minime. Agli studi metabolomici abbiamo aggiunto quelli trascrittomici, di regolazione genetica e di interazione genotipo-ambiente”.
Che tipo di dati fornisce quest’ultima tipologia di analisi?
“Sono studi che evidenziano la plasticità fenotipica, ci dicono cioè come un singolo vitigno si esprime: che tipo di uva fa o quanto produce se coltivato in ambienti pedoclimatici diversi. Abbiamo ad esempio studiato il Glera, quello che una volta era chiamato il Prosecco, in Veneto e in Friuli. Il Negramaro in Puglia e il Sangiovese in Toscana e in Romagna”.
In quale modo questa ricerca può migliorare la tecnica enologica?
“Avendo fatto uno studio molto dettagliato della composizione chimica dell’uva alla vendemmia, sappiamo quali sono le caratteristiche peculiari di ogni vitigno. E solo quando un enologo sa la esatta composizione riesce a fare esprimere al meglio le peculiarità dell’uva”.
C’è anche la possibilità, ora che i geni sono stati mappati, di migliorare i vitigni?
“I risultati che abbiamo ottenuto sono la base di partenza per ulteriori studi. In futuro potremo selezionare nuovi vitigni che resistano meglio alle malattie. Oppure attraverso l’ingegneria genetica agire sul genoma del vitigno facendogli esprimere dei geni che portano alla resistenza alle malattie fungine”.
Quando si parla di manipolazione genetica l’attenzione dell’opinione pubblica è sempre alta. Stiamo parlando di vini Ogm?
“Assolutamente no. Si tratta solo di manipolazione del Dna del vitigno. Non si può parlare di Ogm perché negli organismi geneticamente modificati si introduce del Dna che proviene da un’altra entità”.
Come possiamo migliorare i vitigni?
“Le applicazioni più immediate sono quelle di selezione assistita. Fino ad ora se si voleva migliorare una pianta si ricorreva all’incrocio: prendo una madre e un padre con caratteristiche interessanti, le incrocio, e spero che la progenie erediti i caratteri utili. Si è fatto anche con la vite, cercando di incrociare le varietà coltivate con quelle selvatiche, resistenti alle malattie fungine. Il problema è che la vite selvatica non ha un’uva buona. Oggi è possibile ibridare una specie selvatica con una “domestica” ottenendo un vitigno con le caratteristiche interessanti dell’uno e dell’altro”.
Ci sono altre applicazioni?
“Sempre sulla base di queste conoscenze si potrebbero potenziare le difese naturali della pianta, senza agire a livello genetico. Si potrebbero stimolare le difese naturali contro la peronospera o lo oidio. Nel futuro potremmo arrivare ad avere una medicoltura personalizzata. Conoscendo esattamente il patrimonio genetico dei singoli vitigni potremmo gestirli caso per caso, senza sprechi o cure sbagliate”.
( Fonte agronotizie )