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Quei vini Calimero

“Qui fanno tutti così perchè loro sono grandi e io sono piccolo e nero”. L’Italia ha così tanto vini-Calimero da averne perso il conto.

 

Uve millenarie azzerate dall’epidemia di fillossera e altre semplicemente dimenticate, accantonate perchè poco produttive, ribelli alle forzature chimiche quanto a quelle genetiche, renitenti alle produzioni seriali. Bianche o nere, acidule o tanniche, preziose o modeste, bollate come marginali, insofferenti e inadeguate ai crismi della viticoltura moderna.

Se molte sono arrivate fino a noi, è stato per la cocciutaggine con cui hanno resistito nel tempo, mantenendo un’attitudine alla vinificazione che altre hanno perso, cedendo alla tentazione di inselvatichirsi e uscite per sempre dalle pratiche della domesticazione enologica.

Così, grappolo dopo grappolo, ettaro dopo ettaro, i vitigni dimenticati, dispersi eppure vivi e vegeti dal Piemonte alla Sardegna, hanno preso a riguadagnare terreno, fisico e qualitativo, tra una sfida estrema e la lenta riattivazione delle lavorazioni tradizionali. Nomi suggestivi e arcaici, come il Fumin, uva a bacca nera autoctona valdostana, che nel vino rilascia un lieve sentore affumicato, da cui il nome. Oppure la Coda di volpe, con il suo grappolo bianco, allungato e succoso, che duemila anni fa incantò Plinio il Vecchio e dà il meglio di sé tra l’Irpinia e le falde del Vesuvio. O ancora l’Albarola, migrata dalla Toscana in Liguria, dove fa spesso coppia col Vermentino, ma che vinificata in purezza regala sorsi intriganti di salsedine e frescura ai suoi estimatori.

L’elenco è lunghissimo, se è vero che nel mondo esistono oltre seimila differenti vitigni, con l’Italia ai primissimi posti – a quota 453 – della classifica guidata dalla Georgia, vera superstar del terzo millennio, grazie alla sua eccezionale biodiversità vitivinicola – 524 varietà – e al fascino della vinificazione nei kvevri, le millenarie anfore interrate.

La scelta non è facile. Perchè certe uve sono dei figli complicati da crescere, in bilico perenne tra la voglia di prenderle per mano e quella di imporsi. Il guaio è che provare a ridurre a più miti consigli il Cagnulari sassarese o l’ischitana Forastera è tempo perso. Più facile assecondarne le inclinazioni rustiche, procedendo per piccole migliorie, senza illudersi mai di avere tra le mani quel piacione dello Chardonnay, buono (o quasi) per tutte le latitudini e per tutti i terroir.

Ad avviare il recupero di uve e vini dimenticati sono molto spesso piccoli produttori curiosi o saldamente ancorati alla viticoltura storica del proprio territorio, anche se negli ultimi tempi alcune grandi cantine hanno deviato dalle produzioni international-style (dove siamo quasi sempre perdenti, non foss’altro che per le nostre dimensioni ridotte) lasciandosi accalappiare dal fascino rustico dell’autoctono.

Quindi, se i percorsi semplici vi annoiano, organizzate una gita al Vinitaly, che sabato apre i battenti per la quarantanovesima edizione, cercando queste chicche vinicole negli stand delle enoteche regionali, nelle sezioni Vinitalybio, Vivit e Fivi (Federazione italiana vignaioli indipendenti). Altrimenti, allungatevi fino a Villa La Favorita a Monticello di Fara, Vicenza, dove troverete i 145 i produttori soci di VinNatur. Indispensabili un amico astemio alla guida o un albergo nelle immediate vicinanze.

 

 

( Fonte Repubblica )