Una curiosa avventura commerciale alla fine della guerra. La cantina come una libreria. L’incontro con i grandi dell’Albese da Giacomo Morra a Giovanni Gaja a Bartolo Mascarello. I consigli di Quinto Chionetti alla figlia Nicoletta che produce dolcetto a Dogliani.
Giorgio Bocca era un uomo molto legato al mondo del vino, oltre che un attento bevitore.
Il grande giornalista, scomparso a Milano a 91 anni, tentò subito dopo la guerra la via del commercio enologico, ma gli andò male. Un’avventura che definì “sghemba” e poco conosciuta. La raccontò alla fine degli Anni Novanta, durante un incontro nella sua bella casa nel centro di Milano. Ero stato inviato da La Stampa ad intervistarlo per “I Segreti del gusto”, fascicoli che uscirono allegati al quotidiano. In ogni numero pubblicavamo una testimonianza.
L’inizio dell’incontro fu un po’ ruvido, temeva un’intervista sui suoi gusti enologici: “sono fatti miei”.
Poi però si aprì al ricordo lontano di quel tentativo commerciale: “Nei mesi subito dopo la fine della guerra, con un paio di amici della mia stessa formazione partigiana di Giustizia e Libertà, cercavamo il modo di tirare avanti. Il giornalismo non dava da mangiare. Erano tempi incerti. Ci venne l’idea, dopo la vendemmia del 1945, di comperare vino all’ingrosso e rivenderlo al minuto sul mercato di Cuneo. Noi cuneesi di montagna non abbiamo vigne vicine, il vino è un amico un po’ straniero, lo capiamo, ma non parla proprio il nostro stesso dialetto. Andammo a Narzole, ai confini dell’Albese, con un vecchio camion e delle botti di recupero. Volevamo rivendere quel vino alle osterie delle vallate, ma non ci conoscevano, erano diffidenti e forse non era neppure un granché. Finì che lo svendemmo agli amici e il resto lo abbiamo bevuto noi, perdendoci però un bel po’ di soldi”.
E fu così che Bocca non pensò più a vendere vino. Intraprese con tenacia e crescente successo la strada del giornalismo alla “Gazzetta del Popolo”. Ma non perse più di vista il mondo contadino e delle cantine. Nell’intervista mi parlò anche della conoscenza con Giacomo Morra, il patron del ristorante Savona di Alba e dei suoi preziosi consigli: “Conosceva tutti, era una guida sicura”.
Quando Bocca passò poi al “Giorno” di Milano organizzò spesso gite nelle Langhe con i colleghi. A Barbaresco andava alla cascina dei Bianco e conosceva bene Giovanni Gaja, il padre di Angelo.
Distillò un altro ricordo vivissimo: “Una volta scrissi che avevo trovato una bottiglia del Barbaresco Gaja a Milano, ma era meno buona di quelle che avevo bevuto in paese. La mattina dopo mi suonò il campanello: era Giovanni Gaja, con una sua bottiglia in mano, pronto alla prova”.
Le esplorazioni vitivinicole lo portarono a Barolo e all’incontro con i Mascarello. “Conobbi Bartolo, vignaiolo anomalo con più libri che bottiglie in cantina. Una volta gli portai Alfredo Todisco, lo scrittore che ne fu affascinato. Era la cultura del vino che incontrava quella letteraria, momenti rari e veri”.
Bocca aveva una sua teoria della cantina: “deve essere come una libreria, con vini di tutti i generi e di autori diversi”. Si lamentò della mancanza di locali adatti nelle case di città, compresa la sua, dove comunque aveva un migliaio di bottiglie: “Non solo piemontesi, qualche valdostano, francesi, più rossi che bianchi”.
Parlammo anche dello spazio che il vino aveva conquistato sui giornali: “Ha molto più visibilità di una volta, ma ci sono troppo banalità e luoghi comuni. Certi giornalisti specializzati si rifugiano in gerghi impossibili. Un grande divulgatore è stato Mario Soldati, poi è venuto Veronelli, chi lo imita non è all’altezza e si parla comunque poco dei vini da tutti i giorni”.
Bocca aveva da qualche anno (1992) finanziato l’investimento della figlia Nicoletta a Dogliani. Si era consigliato con l’amico Quinto Chionetti. Finì l’intervista con una confessione: “Mia figlia ha preso tutto da sua madre, un’inglese temeraria. Nicoletta è caparbia, ha deciso di cambiare vita e vivere sulle colline di Dogliani facendo nascere l’azienda San Fereolo. Trovo che il suo sia un buon Dolcetto. Si è fatta strada da sola, non ha neppure messo in etichetta il cognome Bocca. Peccato, in fondo mi sarebbe piaciuto”.
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