Da l’Enologo – n°10 Ottobre 2017 – Mensile dell’Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Di Luigi Bavaresco
Nella gestione annuale del vigneto, la difesa contro le malattie fungine è una pratica necessaria, anche se onerosa in termini di costi e con riflessi più o meno accentuati sull’ambiente e sull’uomo. Rispetto al passato, comunque, il viticoltore ha preso coscienza della necessità di razionalizzare in qualche modo i trattamenti, ricorrendo a strategie diverse oggi disponibili (scelta principi attivi, biocontrollo, modelli previsionali, macchine a recupero, nuove modalità di distribuzione, ecc.), e si può dire che dei passi in avanti siano stati fatti, ma si può fare ancora di più.
( foglia di vite attaccata da peronospora )
Anche le altre scelte viticole possono venire in aiuto, nel senso che piante equilibrate, e cioè non forzate, a dare il massimo delle caratteristiche organolettiche delle uve, sono anche meno sensibili alle più diffuse malattie (peronospora, oidio, botrite). Questo è stato dimostrato in particolare per la concimazione azotata, necessaria e utile finché rispetta il soddisfacimento delle esigenze nutritive della pianta, ma dannosa se eccessiva.
Anche le condizioni pedo-climatiche giocano un ruolo cruciale, per cui, potendo scegliere, è meglio collocare il vigneto in un terroir vocato per la qualità organolettica, che normalmente va a braccetto con una minore pressione fungina e che presenta viti equilibrate da un punto di vista vegeto-produttivo. Un classico esempio è il territorio della Docg Conegliano Valdobbiadene dove esistono aree con vigneti a diverso grado di sensibilità alle malattie (soprattutto peronospora) per cui diversi sono anche i programmi di difesa.
La sostenibilità ambientale dei nuovi vigneti resistenti alle malattie
Il contesto nel quale si colloca anche l’attività viticola è quello di una accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica verso le tematiche della sostenibilità ambientale, che in qualche caso, in zone densamente vitate, è degenerata in vere e proprie contrapposizioni tra i cittadini che vivono nei pressi di vigneti e i viticoltori, dove i primi si lamentano delle conseguenze dei trattamenti antiparassitari nella loro vita quotidiana.
( Foglia di vite attaccata da oidio, conosciuto anche come “mal bianco” )
Comunque, al di la di questi estremi, l’esigenza della sostenibilità è un dato acquisito. Si tratta di un concetto dinamico perché sarebbe meglio parlare di sviluppo sostenibile che è attualmente definito dall’ONU “Sviluppo che si fa carico delle necessità del presente, salvaguardando al contempo il sistema che supporta la vita nel pianeta terra, dal quale dipende il benessere delle generazioni presenti e future”.
Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, da raggiungersi entro il 2030 e che coniugano le esigenze dell’essere umano con quelle del nostro pianeta, sono sostanzialmente 6, e precisamente:
qualità della vita e occupazione;
sicurezza alimentare sostenibile;
disponibilità sostenibile dell’acqua;
disponibilità di energia pulita;
ecosistemi salubri e produttivi;
governance per le società sostenibili.
Tutte le attività umane si dovranno adeguare a questi principi, inclusa l’agricoltura e, all’interno di essa, la viticoltura. Il comportamento umano è quindi fondamentale e presenta una valenza prioritaria rispetto anche ai fattori naturali, al punto che gli scienziati hanno stabilito che stiamo vivendo in una nuova era geologica denominata Antropocene.
L’attività genetica nei nuovi vigneti resistenti alle malattie
Chi scrive appartiene al mondo della ricerca, per cui desideravo in questa nota mettere in evidenza come la comunità scientifica sia conscia di questa situazione e stia lavorando da tempo in diverse direzioni (per razionalizzare sempre di più le modalità della difesa), tra cui quella genetica, che si sostanzia nell’ottenimento di nuovi vitigni resistenti alle malattie (soprattutto peronospora e oidio).
L’evoluzione temporale dei vitigni Fig.1 L’evoluzione temporale dei vitigni
In effetti questo obiettivo non è nuovo, anzi è molto datato e va collocato verso la fine del 1800, dopo l’arrivo in Europa dell’oidio, fillossera e peronospora, parassiti fino ad allora sconosciuti nel nostro continente, e che crearono una vera e propria emergenza.
Si cercarono diverse strade per sconfiggerli ed una di queste aveva come obiettivo l’ottenimento della “vite ideale”, cioè una pianta che coniugasse le ottime caratteristiche organolettiche dell’uva di Vitis vinifera (la specie normalmente coltivata), con le ottime caratteristiche di resistenza alle malattie delle specie selvatiche americane (ex V. labrusca, aestivalis, ecc.); in parole povere una vite che desse buona uva (e buon vino) senza bisogno di essere trattata contro le malattie. Per l’emergenza fillossera, invece, si decise di scegliere una strada apposita che portò all’ottenimento dei portinnesti.
( Tab.1 Nuovi vitigni resistenti alle malattie iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite (RNVV), Sezione uva da vino )
( Tab.2 Evoluzione temporale della produzione italiana di talee innestate delle nuove varietà di viti resistenti alle malattie )
I risultati di questo enorme lavoro di ibridazione, che fu fatto prima negli Usa, poi in Francia e successivamente in altri stati, non furono purtroppo quelli desiderati, se si eccettua però l’ultimo periodo (dopo gli anni ’80), quando questi nuovi vitigni dimostrarono di essere, dal punto di vista organolettico, del tutto simili ai tradizionali vitigni di Vitis vinifera (Fig.1).
Gli individui più recenti ottenuti soprattutto in Germania e Italia (Università di Udine) sono esattamente così (vinifera-simili) e resistenti a peronospora e oidio; in effetti non sono completamente refrattari a tali malattie, richiedendo 1-3 trattamenti. Alcuni di questi (20) sono stati anche iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite (Tab. 1) e classificati in alcune (ancora poche) province/regioni italiane. Dal punto di vista teorico, quindi, alcuni viticoltori italiani hanno l’opportunità di accedere a tali materiali, che possono essere utilizzati per produrre vini da tavola, Igp, ma non Dop. Una parte del mondo vivaistico sta pubblicizzando molto questi nuovi vitigni, che stanno per entrare a pieno regime nel circuito vivaistico.
L’interesse del mondo produttivo è evidenziabile anche dalla crescita esponenziale di materiale di propagazione disponibile (Tab. 2). Sono stati allestiti anche dei vigneti sperimentali per verificare in diverse zone italiane il loro comportamento generale e capire quindi come rispondono a diversi ambienti pedo-climatici sia in termini qualitativi che di resistenza. Anche la Francia recentemente ha iniziato un programma di sperimentazione dei nuovi vitigni in diverse aree vitate (osservatorio nazionale OsCaR, guidato da INRA e IFV), ed alcuni sono stati iscritti al registro ampelografico nazionale.
I limiti legislativi dei nuovi vitigni resistenti alle malattie
Se si vogliono coltivare questi nuovi vitigni per ottenere vini da tavola, non ci sono problemi tecnico-legislativi, mentre per gli aspetti di commercializzazione sarà compito di chi li produce promuoverli in maniera adeguata, così da averne un buon ritorno economico.
Le cose sono un po’ più complicate per le Igp, la cui produzione è regolamenta da un disciplinare di produzione. Se si vogliono valorizzare questi nuovi vitigni all’interno di una data Igp indicando il loro nome, bisogna modificare il disciplinare, creando quindi un consenso su questa nuova filosofia produttiva; c’è poi da considerare la risposta del mercato che sarà positiva se si percepirà l’innovazione tecnica che sottende questi nuovi vini. La situazione è più semplice invece se in una data Igp si mantengono i nomi dei vitigni classici dove è prevista l’aggiunta, fino al 15%, di vitigni diversi ma classificati idonei alla coltivazione in una data provincia o regione, dove insiste quella Igp.
Ad esempio 19 genotipi iscritti al RNVV sono utilizzabili in 10 vini Igp del nord est e uno (il Regent) in 11 Igp. Salendo la piramide qualitativa e arrivando ai vini a Dop, la situazione attuale è molto chiara e negativa per quanto riguarda la possibilità di coltivare questi nuovi vitigni resistenti alle malattie, considerando che solo vitigni appartenenti alla specie Vitis vinifera possono dare vini a Dop.
Quindi per poter inserire questi vitigni anche nelle Dop ci sono due strade alternative:
classificarli come Vitis vinifera;
considerarli ancora come ibridi ma modificare la legislazione (futura OCM) permettendo anche a questi nuovi vitigni di entrare nelle Dop.
Anche a livello internazionale (OIV) è iniziato un dibattito sull’argomento, con posizioni contrapposte tra chi li vuole considerare Vitis vinifera e chi li vuole considerare come ibridi.
Al di là, però, di quale strada seguire, il punto cruciale è un altro: che cosa ne pensa la filiera produttiva italiana riguardo all’utilizzo di questi nuovi individui nel sistema delle Dop? Può essere un’opportunità commerciale? Può essere utile al sistema vino italiano? Personalmente ritengo che l’utilizzo di questi nuovi vitigni (e altri in futuro) debba essere ammesso anche nelle Dop, procedendo a piccoli passi, permettendo all’inizio di coprire quella piccola percentuale di vitigni secondari prevista in molte denominazioni, coltivandoli preferenzialmente vicino a abitazioni, scuole, ecc.
( Grappoli di Raboso Piave )
È per questa convinzione che nel 2012, quando dirigevo il CRA-VIT di Conegliano, iniziai un programma di breeding a partire da Glera e Raboso Piave, ibridandoli con vitigni resistenti quali il Regent, Bianca, ecc. Si tratta di un lavoro a lungo termine (circa 15-20 anni), ma meritevole di essere svolto, con l’obiettivo di ottenere almeno 2-3 nuovi vitigni resistenti Glera-simili e altrettanti Raboso-simili.
In quest’ottica, tutti i principali vitigni oggi coltivati in Italia dovrebbero essere oggetto di miglioramento, con l’obiettivo di avere 2-3 nuovi vitigni simili dal punto di vista della qualità dell’uva/vino al genitore Vitis vinifera usato nell’ibridazione. Ovviamente ci vorrà il consenso di tutti gli attori del sistema vino, e della politica, affinché anche le Dop possano includere questi nuovi individui, ed un’accettazione da parte del mercato.
Se si guarda però a cosa è successo in un paese che ha speso e spende molte energie nel campo del miglioramento genetico della vite per le resistenze (la Germania), la situazione non è edificante. La superficie vitata tedesca coltivata con nuovi vitigni resistenti alle malattie è ancora molto scarsa (qualche migliaio di ettari). Il motivo sembra essere legato ai nomi (dei vitigni) nuovi e sconosciuti, che non attirano il consumatore, e quindi a una questione commerciale.
Nel caso di una Dop, questo problema non dovrebbe sussistere, perché il nome del nuovo vitigno verrebbe mascherato del nome della denominazione.
Il futuro delle nuove uve resistenti alle malattie
Per quanto riguarda il futuro, gli aspetti che devono essere considerati attentamente nei nuovi programmi di miglioramento genetico per la resistenza alle malattie, usando i metodi classici, sono:
usare fonti di resistenza proprie anche di alcuni particolari vitigni di Vitis vinifera della zona tanscaucasica-Uzbekistan (ad esempio la Kishmish vatkana e altri); in questo caso si parla di incrocio e non di ibrido, con tutti i vantaggi legati ad un ottimale quadro qualitativo della progenie. A questo proposito si ricordano 4 nuovi incroci ottenuti dalla FEM, S. Michele all’Adige, resistenti alla botrite, partendo da Teroldego, Lagrein, Moscato Ottonel e Malvasia di Candia aromatica;
MAS (Marker Assisted Selection): uso di tecniche molecolari per la selezione precoce, a livello di DNA, di quei semenzali che presentano le caratteristiche desiderate, che abbiano cioè più di un gene di resistenza a una data malattia. La conoscenza dei caratteri di resistenza permette anche una scelta oculata dei genitori;
porre particolare enfasi sulla qualità organolettica delle uve/vini che deve essere almeno uguale a quanto tuttora esiste (per evitare gli insuccessi dei vecchi ibridi francesi);
ottenere nuovi genotipi con il numero massimo possibile di geni di resistenza ad una data malattia;
sviluppare programmi di breeding in loco, per ottenere genotipi adatti a specifici ambienti pedo-climatici;
esplorare tutto il germoplasma viticolo disponibile a livello mondiale, per ampliare la disponibilità di fonti di resistenza;
considerare altre malattie e parassiti (oltre a oidio, peronospora, botrite).
( Un grappolo d’uva ancora acerba )
Novità nelle metodologie dei nuovi vigneti resistenti alle malattie
In prospettiva, si profilano delle novità sostanziali in termini di metodologie utilizzabili, e precisamente:
Cis-genesi: trasferimento di geni utili da specie selvatiche del genere Vitis a vitigni di Vitis vinifera, mantenendo il fenotipo del vitigno (che in più possiede la resistenza);
Genome editing: manipolazione del DNA di un dato vitigno di Vitis vinifera, al fine di far esprimere uno o più caratteri desiderati, mantenendo il fenotipo del vitigno (che in più manifesta la resistenza).
Soprattutto la seconda opzione è molto affascinante e potenzialmente la migliore tra tutte sia come impatto sull’opinione pubblica che come livello di innovazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, siamo di fronte a una tecnica che non implica trasferimenti di geni (come avveniva con le antiche tecniche di trasformazione) per cui le remore legate agli OGM tradizionali dovrebbero cadere; si tratta comunque di una manipolazione del DNA della pianta e atteggiamenti di sospetto (quando non di rifiuto) da parte dell’opinione pubblica vanno messi in conto, per cui la comunità scientifica si deve preparare al confronto, su basi razionali. Per quanto riguarda il secondo aspetto, saremo in grado, in futuro, di ottenere un vitigno di Vitis vinifera in tutto simile a se stesso, eccetto che per i caratteri di resistenza alle malattie. Inoltre, al fine di mantenere un minimo di variabilità intra-varietale, si potrebbero modificare più cloni di uno stesso vitigno.
( Nuove metodologie per migliorare la resistenza dei vigneti )
Ci sono a livello mondiale (Australia, USA, ecc.) delle ricerche in corso in questo ambito, con dei risultati preliminari e dei problemi ancora da superare quali la scarsa capacità di rigenerazione di diversi vitigni (passaggio da coltura in vitro a pianta intera), effetti collaterali inattesi e indesiderati, e in prospettiva aspetti normativi e commerciali da condividere.
Attualmente comunque non esiste ancora un vigneto commerciale che coltivi queste nuove viti, ma in un futuro prossimo ci sarà senz’altro in qualche parte del mondo.
È importante quindi che la ricerca scientifica faccia il suo corso, per poter dare in futuro al decisore politico anche questo nuovo strumento per affrontare la problematica della sostenibilità. Sarà poi compito suo decidere, sulla base del miglior vantaggio per la filiera, se permettere l’uso di questi nuovi genotipi e con quali modalità (da soli, in consociazione, ecc.). Recentemente il MiPAAF si è dimostrato attento a queste nuove tecnologie (definendole biotecnologie sostenibili), finanziando un progetto su diverse colture agrarie, compresa la vite.
Considerazioni conclusive sulla resistenza alle malattie dei vigneti
Per concludere, chi fa ricerca può agire in tre modi:
garantire che il prodotto proposto (la vite resistente) abbia e mantenga nel tempo e nello spazio i requisiti sopra indicati: sia cioè garantito il livello reale di resistenza (che non deve essere superato dal parassita; questo è verosimile considerando che i nuovi vitigni devono avere resistenza poligenica); sia garantito il livello qualitativo (organolettico) del vino; siano garantiti (nel caso dell’ibridazione) i requisiti minimi di qualità del vino (metanolo e antociani diglucosidi, per i rossi, al di sotto delle soglie fissate per legge);
riconoscere che questa innovazione deve essere condivisa e accettata da altri attori della filiera vite-vino; infatti solo così anche il legislatore potrà essere flessibile e modificare quanto ora esiste;
stimolare un dibattito serio tra tutti gli attori della filiera (compresi i consumatori) affinché questa innovazione (derivante dal breeding classico o dal genome editing), sia realmente tale e cioè porti un vantaggio, in primo luogo a chi la utilizza (il viticoltore) e poi a tutta la società che si interfaccia con essa.
( Fonte Luigi Bavaresco )