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Nerello nero di Ferruzzano

Alla fine degli anni 60 del 900 , il defunto Peppino Tallarida, esperto di viti e di vigne, ebbe l’incarico da parte della nipote Maria Violi, di organizzare una vigna in un campo del marito, Sculli Domenico Ottavio, ora defunto pur’ egli; essa doveva essere particolare in quanto doveva essere rappresentativa delle numerosissime vigne che ancora esistevano a Ferruzzano.

 

nerello

 

Essa avrebbe dovuto produrre il vino simile a quello che si beveva quando ella era ancora ragazza , che emanava una fragranza particolare ed era di un rosso rubino scuro.

Allora Peppino, cominciò a visitare le vigne boccheggianti ormai, del territorio e privilegiò quelle delle Badie, sia quella di Ferruzzano che quella di Caraffa, dove ora esiste il deserto, prodotto da capre che pascolano abusivamente da decenni ormai.

Ai primi di settembre cominciò a segnare con strisce di stoffa colorata le viti dai grappoli migliori, secondo il suo punto di vista; le strisce rosse avrebbero indicato i vitigni che avrebbero offerto uve nere, mentre quelle bianche avrebbero indicate le viti che producevano uve bianche, distinguendo però, tra Guardavalli, Inzolie e Malvasie.

La sua scelta avrebbe dovuto seguire il metodo dei vecchi che privilegiavano i grappoli dagli acini dalla buccia spessa, quasi coriacea, più ricchi di tannini e di antociani; tanto per cominciare la vigna non sarebbe dovuto essere monovarietale , ma costituita da varietà diverse.

I grappoli bisognava che fossero generalmente spargoli e possibilmente piccoli, mentre nella composizione del vino per l’ottanta per cento doveva derivare da uve dei nerelli, mentre il 20 per cento da uve di bianchi, in una mescolanza precisa.

Infatti dovevano prevalere le uve delle Guardavalli per le metà del venti per cento, mentre il restante dieci doveva essere diviso tra le uve dell’Inzolia e quelle delle Malvasie; nel caso si volesse la presenza di un leggero aroma nel vino, bisognava ricorrere al moscatello, chiamato anche Zibibello a Ferruzzano.

Nella vigna riproducente un modello antico, anche nel sistema di allevamento ci fu un tripudio di nerelli e tutte le viti furono allevate ad alberello, con la sola variante che vennero allineate di modo che vi passasse una macchina agricola.

L’alberello cominciava a divenire tale, a partire dal terzo anno, in quanto nella potatura del primo anno, ad ogni vite venivano lasciate due gemme, ma poi veniva eliminato il getto più vicino al suolo, durante la potatura verde.

Al secondo anno, nella potatura , ogni vite ancora sottile , doveva essere potata a tre gemme, di cui quella più bassa era eliminata, ancora durante la potatura verde, mentre al terzo anno veniva decisa la definitiva formazione della vite, potata a “ dinocchio”(ginocchio), che corrispondeva a circa 50 cm di altezza o poco più.

Si sceglieva tale misura in altezza per vari motivi, tra cui la possibilità di allevare le viti senza un sostegno morto, ossia un palo, per cui i tralci ricadevano armoniosamente all’esterno e di conseguenza i grappoli ricevevano dall’alto i raggi del sole , per cui durante la potatura verde, non c’era bisogno di eliminare le foglie basali, molto importanti per la caratterizzazione in meglio dell’uva.

Pertanto al terzo anno nasceva l’alberello quando la vite veniva potata in alto a biforcazione, dotata di quattro gemme, due per ogni parte; ognuno delle due partisi sarebbe trasformata in sperone o “ corno”.

Al quarto anno, durante la potatura la, la vite veniva predisposta ad avere tre “ corni “ o speroni e negli anni successivi anche a quattro ,in relazione alla condizione della vite stessa.

Per ogni sperone venivano lasciate due gemme, che si sarebbero trasformate in tralci, di cui quello superiore sarebbe stato eliminato nella potatura dell’anno successivo.

La vigna di Maria Violi divenne un piccolo ricettacolo della biodiversità viticola del territorio, tanto che nell’agosto del 2002, tre ricercatori della Statale di Milano, per conto del prof .Attilio Scienza si rifornirono di tralci , da cui furono ricavati centinaia d’innesti per campi collezioni.

La vigna ormai è alla fine della sua esistenza, in quanto in mezzo alle viti sono stati piantati degli ulivi, ma nonostante ciò quattro anni addietro essa ha attirato l’attenzione di Cataldo Calabretta, un vignaiolo di Cirò, che ha avuto l’opportunità di visitarla d’estate e di scegliere i nerelli più interessanti; addirittura è stata individuata una vite corrispondente al Corinto nero, per giunta apirene.

La vite evidenziata nella foto, rappresenta uno dei tanti nerelli e proprio essa ha attirato l’attenzione nell’estate del 2016 di un vignaiolo dell’Astigiano, Teo Costa, indicandolo dalle qualità superiori, capace di esprimere con le sue uve, un vino sublime, qualora fosse salvato e coltivato diffusamente.

In particolare è stato attratto dalla buccia molto spessa degli acini, dal colore rossiccio della polpa e dagli eleganti grappoli, talvolta gemellati e dotati d bacche quasi sferiche, subovali di un bleu intenso.

Facevano la visita in vigna alcuni calabresi assieme a Teo Costa, a cui è stato impedito di recuperare degli innesti da portare in Piemonte.

Con tale azione di “difesa “ certamente non si salverà né quella né tantissime altre viti che ormai sono destinate ad estinguersi.

 

 ( Fonte larivieraonline )

 

Cosi’ mi scrive un lettore e ricercatore universitario, condivido appieno il suo pensiero.

Diversi anni fa per conto dell’ Università degli Studi di Milano con la collaborazione del Professor Osvaldo Failla micro-vinificai diversi campioni di uve calabresi tra cui Nerello di Ferruzzano, Mastro Roccu di Ferruzzano e Occhio di Lepre, tutti molto interessanti sia dal punto di vista chimico che sotto il profilo sensoriale, purtroppo molti di questi vitigni se non in collezioni private sono scomparsi e i costi per lo studio e la replicazione sono troppo grandi e lunghi per cantine private. E’ opportuno che Enti e Università collaborino alla tutela di questi patrimoni che ci possono differenziare nel mercato globale del vino.

Dott. Fausto Lonero