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Mr Berlucchi: ” Ho dato una lezione ai miei figli, vendendogli l’azienda “

Franco Ziliani racconta come si fa un passaggio generazionale: si sono indebitati per ricomprare il gruppo dove già lavoravano. Impareranno ad amministrarla con più attenzione. Ora controllano ogni piccola spesa

 

«Dovete sentire il bruciore, tocca a voi». Franco Ziliani è l’uomo che ha generato la Franciacorta del vino. Il primo a imbottigliare spumante, nel 1961, quando ancora la Doc bresciana era un sogno. Dopo una carriera che ha attraversato il 900 tra ascese e risalite del vino italiano, il patron di Berlucchi ha deciso di vendere il 52% della Frazil, la cassaforte che controlla la srl Guido Berlucchi, ai figli, Arturo, Cristina e Paolo, mantenendo la carica di presidente con un simbolico 1,2 per cento. È allegro, benché l’ultima vendemmia abbia fatto segnare un drammatico – 50% di uve. Al ristorante scherza con le cameriere, dice sottovoce che può mangiare poco ma svuota i piatti, parla per tre ore, battendo il pugno sul tavolo e talvolta commuovendosi.

Perché ha voluto che i figli si indebitassero per acquistare la cantina dove lavorano da decenni?

 

 

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 Al centro Franco Ziliani (presidente). Da sinistra, Paolo (vicepresidente), Cristina (consigliere delegato) e Arturo (Ad) 

«Perché quando si possiede un’azienda la si amministra con più attenzione. Ora controllano ogni piccola spesa. Non vengono più a Milano con l’autista, guidano loro».

Come sta?

«Ho quasi 80 anni (“no papà, quasi 90” lo corregge la figlia, e lui ride), mi sento in forma, la memoria funziona bene. Ricordo i sapori dei vini che ho assaggiato da ragazzo».

Quanto erano diversi da quelli di oggi?

«Negli anni 60 non c’erano né i mezzi né i metodi di oggi. Però ogni annata era riconoscibile, oggi la qualità si è alzata, ma ci sono vini che sembrano sempre uguali. Quando ho iniziato le vasche di cemento erano così malfatte che intorbidivano il vino».

Anche quello che faceva lei?

«No, sono stato chiamato da Guido Berlucchi proprio perché riuscivo a rendere limpidi i vini delle cantine dov’ero consulente. Tolsi l’opacità anche al suo Pinot del Castello, un bianco fermo».

Dove lo aveva imparato?

«Alla scuola enologica di Alba, c’erano insegnanti meravigliosi. Non studiavo molto. L’aula era a gradoni, quando doveva interrogarmi il prof si levava gli occhiali, sbuffava e allargava le braccia dicendo “ma sì, scendi anche tu”».

Che voti prendeva?

«Buoni, perché avevo un trucco, favorito dal mio cognome con la zeta. Il giorno prima dell’interrogazione andavo a scuola a piedi, parecchi chilometri, con uno studente con la V, Vivaldi. Mi spiegava cosa aveva letto, il giorno dopo lo ripetevo».

Come si è appassionato alle bollicine?

«Prima del diploma mio padre a Natale aprì una bottiglia di champagne, Piper-Heidsieck. Ho ancora il gusto sul palato. Mi innamorai. Da allora torno spesso nella regione dello Champagne, ci sono stato anche un mese fa con i miei amici. Mi sono fermato a parlare 4 ore con un vigneron incontrato per caso: abbiamo bevuto di tutto».

Chi era Guido Berlucchi?

«Un gentiluomo. Dicono che era timido, in realtà era un bastian contrario. Formale, per 20 anni mi ha dato del lei».

Come l’ha convinto a produrre spumante con il Metodo classico?

«Era il 1958, lui non voleva, ho insistito. Se funziona in Francia, possiamo farlo anche in Italia, gli dicevo. Alla fine ha ceduto».

Il Franciacorta è nato così?

«Non subito, per tre anni abbiamo sbagliato. Il vino non rifermentava in bottiglia, oppure il fondo dei lieviti si cristallizzava. Non avevamo le attrezzature. Ho costruito un cassone di metallo per immergere le bottiglie nel ghiaccio prima del degorgment, ma la temperatura era sempre sbagliata. Avevamo tappi orribili».

Li avete cambiati?

«Anni dopo ne ho trovato di favolosi sulla mensola del caminetto, li aveva lasciati un rappresentante. Partii subito per la Francia, con l’auto di Guido. La riempii di sacchi con migliaia di tappi. Anche sul portapacchi. I sacchi si ruppero, i tappi invasero la strada, i camionisti ci aiutarono. Guidai con i finestrini aperti, quel sughero era esplosivo. Alla dogana piansi per evitare il sequestro, perché non c’erano i sacchi indicati nelle fatture».

Quante bottiglie siete riusciti a produrre il primo anno?

«Tremila. Tutte vendute a 1.200 lire, sei volte più del Pinot del Castello che ne costava 200. Non sapevamo neppure come si faceva una catasta di bottiglie. Ho imparato tutto da solo, copiando quello che vedevo in Francia».

Un successo rapido.

«Non tutti ci credevano. Beppe, il cameriere tuttofare di Guido Berlucchi, vedendo le 20 mila bottiglie mi disse: ci vorranno 20 anni per venderle. Ci rimasi male».

Beppe era anche il cantiniere?

«Anche il venditore. Con un’Ape portava il vino ai primi clienti, come il Bar Piccolo di Bergamo che restituiva sempre le bottiglie vuote chiedendo uno sconto».

I clienti in cantina arrivavano?

«Sì, e rimanevano stregati dal profumo all’esterno. Facevo raccogliere le plastiche dei tappi corona usati nella prima fase dell’affinamento, il cortile si trasformava».

Quante bottiglie siete riusciti a vendere?

«Non bastavano mai, le mettevamo anche sotto il portico, finivamo tutto subito. Per questo comprammo uve dall’Oltrepò Pavese e dal Trentino. Nel 1970 Berlucchi vendeva 120 mila bottiglie, nel 1980 un milione. Eravamo tre soci, Berlucchi, l’assicuratore Giorgio Lanciani e io. Ora vendiamo 4,2 milioni di bottiglie».

Fino a quando lei e Berlucchi avete lavorato assieme?

«Fino alla sua morte, nel 2000. Nel testamento ci sono lasciti per mezzo Borgonato, anche al macellaio. Le sue quote vennero trasferite a una fondazione che finanziava la ricerca anticancro con i profitti della cantina. L’anno scorso ci ha venduto tutto».

Ai figli cosa ha insegnato, più a rischiare o più a essere prudenti?

«Primo, che l’azienda è importante e che non si costruisce solo con una generazione. Secondo, a controllare i conti e poi investire. Non ho mai avuto problemi con le banche, mi offrono ancora soldi. Gli imprenditori della mia età conoscono il risparmio più di quelli attuali. Spero di aver insegnato ai figli a essere grandi nelle piccole cose».

È vero che lavora ancora?

«Sono ancora innamorato del mio lavoro, ma ho smesso. Anche perché i miei figli sono migliori di me».

 

 

( Fonte Corriere )