Di Monica Larner
Una straordinarietà biodiversità di uve, il genius loci e, infine, la capacità di resistere al cambiamento climatico: sono queste le tre caratteristiche che plasmano l’irresistibile identità dei bicchieri nati nel Bel Paese
Centinaia di bottiglie di vino sono disposte con cura in lunghe file a punteggiare l’intero pavimento nel mio ufficio di Roma, come un folto tappeto di vetro scuro. Mi sono riservata uno stretto passaggio che mi costringe a delicate manovre per raggiungere il computer. Una volta sistemata alla scrivania, passo gran parte della giornata a degustare vini, annusare, sorseggiare e sputare.
Sono una degustatrice professionale di vini presso la Robert Parker Wine Advocate, guida indipendente ai vini d’eccellenza, pubblicata negli Stati Uniti ma diffusa e apprezzata in tutto il mondo. La Michelin, l’azienda che assegna le prestigiose stelle ai ristoranti più rinomati, è proprietaria della rivista. Io sono incaricata delle recensioni riguardanti i vini italiani, fino a 4.000 campionature all’anno (pari a 11 vini al giorno, fine settimana e ferie comprese).
Il mio compito consiste nel decifrare la magica raffinatezza del vino: le sue evanescenti sfumature di rubino, le delicate fragranze di violetta, o ancora la struttura rifinita dei tannini. Queste sottigliezze si traducono in un codice numerico. Il punteggio massimo di cento centesimi viene assegnato molto di rado, ma per me non c’è soddisfazione più grande che quella di appuntare una valutazione a tre cifre su una bottiglia di vino italiano.
Ora che mi appresto a celebrare il ventesimo anno di carriera, tuttavia, mi sforzo di guardare oltre punteggi e sottigliezze, alla ricerca di un significato più profondo. Non c’è dubbio: quando il nostro organismo è stato attraversato dal dna di un centinaio di migliaia di vini, ecco che si raggiunge un certo livello di saggezza. Il mio ultimo progetto è, perciò, questo: dare una definizione al vino italiano. Perché è diverso da quello francese, o da quello della California, dove sono nata, o da qualsiasi altra regione produttrice?
In che cosa consiste il legame emotivo con il vino italiano? Come mai gli appassionati di tutto il mondo trovano così irresistibili quei 750 ml di italianità? Certo, altri Paesi vantano stili vinicoli più lineari e convenzionali, e il loro sistema di denominazione appare di più facile comprensione. Ma, in confronto, i vini italiani emanano una fortissima personalità. Il mio progetto è in corso d’opera, ma oserei dire che il vino italiano si compone di tre elementi che ho raccolto finora, e il mio criterio ispiratore si riassume in un motto: per raccontare il vino italiano, bisogna prima capire l’Italia del vino.
La «voce varietale» del vino italiano
Nella mia definizione rientra, per prima cosa, il concetto della «voce varietale». Difatti, l’Italia accoglie una straordinaria biodiversità di uve, con 545 varietà coltivate. Già il naturalista latino Plinio il Vecchio aveva notato come la penisola vantasse più vitigni che granelli di sabbia su una spiaggia. Il mio amico Attilio Scienza, professore dell’Università di Milano, massimo esperto contemporaneo in questo campo, esprime il concetto con queste parole: «L’Italia è la foresta amazzonica della viticoltura».
Dal Carricante, che produce i bianchi elettrizzanti dell’Etna, soffusi di aromi agrumati, freschezza e salinità, passando dal sapore deciso del Ciliegiolo di Maremma fino alla classica eleganza del Nebbiolo piemontese, carico di liquerizia, tartufo e nocciola, il patrimonio genetico dei vini italiani resta ineguagliabile. La straordinaria molteplicità di aromi che sottoponiamo all’olfatto mi ricorda l’effetto che l’Italia esercita su un altro senso, l’udito. Qui si parlano decine di lingue e dialetti diversi, taluni indecifrabili, ma ciascuno in grado di trasmettere perfettamente il carattere di una località geografica.
Ecco, la voce varietale è quella capacità eccezionale che hanno le uve italiane di entrare in contatto con noi, per raccontarci la storia di un’intera regione. Talvolta ci giunge la voce di un solista, come il Sangiovese di Montalcino, altre volte ascoltiamo un coro, come gli assemblaggi di uve nell’Amarone della Valpolicella. Che non sia proprio questo chicco sferico, l’acino d’uva, il più autorevole narratore dell’Italia?
Il genius loci: lo spirito del luogo
La seconda chiave sta nel concetto di genius loci, lo spirito del luogo, la cui presenza si avverte percorrendo semplicemente i filari dei vigneti. I francesi parlano di terroir, una confluenza quasi mistica di fattori ambientali che consacrano l’identità di ogni vino. Questo spiega come mai il Pinot Noir di Borgogna si differenzia a seconda del Domaine che lo coltiva. Tranne che per il Barolo e il Barbaresco, dove un’unica varietà di Nebbiolo è coltivata in zone accuratamente delimitate, trovo difficile applicare il parametro del terroir al vino italiano.
Sono troppe le variabili imprevedibili che entrano in gioco per poter applicare il principio francese. Propendo invece per la magia classica del genius loci, perché comporta un approccio sostenibile e olistico, e pone una ben più marcata enfasi sul fattore umano. Un grande vino non è solo il prodotto di un nobile vigneto. L’Italia dimostra come le tradizioni agricole rurali, la chiesa, l’arte, la cultura e la cucina regionale — dai ravioli del plin fino alle busiate alla trapanese — tutto concorre a plasmare l’identità di un vino italiano.
Una componente fondamentale: la biodiversità
L’ultima parte della mia definizione si ricollega al notevolissimo passato vinicolo italiano e al suo significato quando si guarda al futuro. Compresa tra il 45° e il 38° parallelo, questa penisola baciata dal sole è stata sin da tempi remoti un immenso vivaio, sul crocevia delle principali rotte commerciali del Mediterraneo. Nell’antichissima Enotria, i vitigni si propagavano per seme e non per talea, e questo ha dato inizio a un’eccezionale biodiversità. La clonazione restituisce l’esatta fotocopia di un vino. Grazie alla ricerca e alla selezione, un clone di Cabernet Sauvignon attecchirà e produrrà certamente in qualunque luogo, da Bolgheri in Toscana fino a Napa in California o a Margaret River in Australia.
Il vino italiano, invece, proviene da un miscuglio disordinato di uve autoctone, alcune problematiche e poco uniformi, che rendono un raccolto scarso se trapiantate su suolo straniero. Possiedono, tuttavia, una personalità vivace, una precisa voce varietale e riflettono infine il genius loci. Il grande vantaggio competitivo del vino italiano è quello di essere, insomma, inimitabile. La diversità genetica assicura al vino italiano una prerogativa significativa davanti ai cambiamenti climatici.
Nascosto in qualche angolo di quel vivaio caotico esiste certamente il seme provvidenziale che produrrà vitigni resistenti alla siccità, al calore, all’umidità. Per riassumere, dunque, tutta l’esperienza raccolta in vent’anni di lavoro e migliaia di vini degustati, posso affermare che il vino italiano è racchiuso in una sola parola: è un inizio. (traduzione di Rita Baldassarre).
( Fonte Corriere.it )