I frutti dimenticati
La ricerca sulle viti del territorio, svolta in aree marginali, è stata fruttuosa grazie alle persone anziane che in piccole vigne, vicine ai centri dell’entroterra avevano conservato i vitigni degli antenati. Infatti le vigne più grandi erano state abbandonate in seguito all’emigrazione di massa degli anni 50 quando andarono via anche gli zappatori che erano i consumatori primari del vino che essi contribuivano a produrre.
Bisogna ricordare che il vino stordiva un po’ ma dava molta energia per cui i padroni delle vigne passavano il vino più volte al giorno ai lavoratori e naturalmente talvolta veniva dato non certo il migliore, a coronamento di un parco pasto a base di olive salate, cipolle, lardo, cacio e pane ma in questo caso si poteva essere mal ripagati, mentre pochi passavano un buon vino negli orci da cui si beveva a fontanella ed addirittura un’abbondante pranzo a base di polpette e maccheroni; in questo raro caso il lavoro progrediva velocemente e meglio.
L’espediente punitivo per il padrone poco generoso era costituito dall’azione di rivoltare le zolle su parti non zappate e con tale metodo il lavoro appariva portato avanti con alacrità.
Naturalmente ogni vigna era costituita da decine di varietà che producevano uve diverse, che venivano calcate assieme.
Infatti c’era la convinzione che il vino venisse migliore e più fragrante qualora le varietà fossero tante.
Per evitare la selezione la maggior parte dei contadini, prima di piantare una vigna, alla cieca andava a recuperare i tralci in una vigna vecchia.
Difficilmente si facevano vinificazioni in purezza e solamente da parte dei ricchi proprietari terrieri che addirittura potevano fare sperimentazioni e prove su uve non precedentemente saggiate.
Essi potevano addirittura produrre vini da dessert, chiamate solitamente “greci” con diverse varietà che si poteva recuperare nei territori: mantonico, bianco e nero, lacrima, bianca e nera, malvasie, moscatelli, ecc.
Alla fine degli anni 50 del novecento, il capitolo emigrazione transoceanica era ormai chiuso, ma si aprì uno nuovo, quello degli inizi degli anni 60, quando i “terroni” s’indirizzarono verso l’area del triangolo industriale, Milano, Torino e Genova., in seguito al “boom “ economico.
Infatti in tale periodo si sviluppò l’industria automobilistica che ebbe il suo perno nella F.I.A.T., m a non solo.
Apparvero nelle case operaie i frigoriferi e le televisioni e l’aumento della popolazione nel “triangolo industriale “, determinò lo sviluppo dell’edilizia e l’espansione, talvolta senza regole, delle città del Nord.
Il Sud precipitò in una crisi irreversibile, con i centri collinari che si svuotarono dopo centinaia di anni di esistenza, grazie ad una politica dissennata da parte di una classe politica impreparata.
Pertanto nei paesi dell’entroterra rimasero solo gli anziani, quelli che non avevano avuto il coraggio di affrontare una nuova vita fatta di sacrifici e coloro che si ritenevano benestanti.
Per alcuni anni ancora le persone non giovani ebbero il ruolo di perpetuare il germoplasma calabrese in piccoli poderi talvolta ricadenti in aree non distanti dai paesi oppure in quelli lontani, dove si recavano a dorso d’asino.
Le vigne marginali rappresentarono uno scrigno prezioso lasciato in eredità dai greci, dai romani e dai bizantini e proprio ad essi indirizzai il mio interesse alla fine degli anni ottanta del novecento e feci appena in tempo a recuperare trecento accessioni.
Nelle indagini di due anni addietro del ricercatore Angelo Caputo, del Centro Sperimentale di Turi, che ha estratto il DNA di 253 viti, ben 70 sono risultate uniche al mondo, quindi genotipi; altre sono risultate identiche a vitigni della Campania, Puglia, Basilicata ecc., a dimostrazione della grande mobilità che esisteva anche nel passato, nel mondo viticolo, dell’Italia meridionale, erede della Magna Grecia, che rappresentò il Terzo Polo di domesticazione della vite.
Ho esplorato per anni, 17 comunità con le realtà viticole ormai marginali, gestiti solo da anziani o da vecchi, avvalendomi dell’esperienza di circa sessanta persone non giovani, quindi competenti al massimo nel settore viticolo e non.
Talvolta ritorno nei posti che cominciai a frequentare alla fine degli anni ottanta del 900 ed ogni anno riscontro la dipartita di qualcuno e la scomparsa di una vigna marginale.
Di circa sessanta custodi che si erano offerti ad aiutarmi, sono rimasti poco più di una decina, di cui solo la metà operativi.
Uno di essi, il defunto Giuseppe Lipari di Ferruzzano mi fece dono circa 15 addietro di alcuni tralci della Lacrima bianca lanata, con le cui uve nel passato veniva prodotto un raffinato passito bianco.
La pagina inferiore della foglia della Lacrima bianca lanata, è fortemente pubescente e fa venire in mente le aminie lanate portate dai Tessali verso la metà del V secolo a.C. nell’area di Sibari distrutta dai Crotoniati nel 510 a.C.
I Tessali cercarono di ricostruire la città, ma furono attaccati a loro volta dai crotoniati e furono costretti a lasciarla e i superstiti si rifugiarono, a Posidonia, poi Paestum, colonia di Sibari in Campania.
Proprio in Campania esistono delle viti simili alla Lacrima bianca di Ferruzzano, tra cui la Coda di Volpe e forse la Falanghina.
Le uve della Lacrima lanata di Ferruzzano sono molto delicate e lievemente aromatiche e con esse potrebbe essere prodotto un bianco raffinato.
Di tale varietà esistono solo una decina di viti, di cui una nella vigna del defunto Giuseppe Lipari in contrada Saccuti nel comune di Ferruzzano e le restanti nel campo di salvataggio dello scrivente in contrada Arie Murate dello stesso comune.
Autore:
Orlando Sculli e Antonino Sigilli
( Fonte larivieraonline )