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La mia prima volta con Fabrizio De André

Un bicchiere di vino. Era questa la missione strampalata che mi ero data in quello che sarebbe diventato il mio primo, rocambolesco, incontro con Fabrizio De André.

 

 

Non un’intervista di persona, che tanto a quell’ipotesi aveva detto e ripetuto un sonoro “no” attraverso il suo “mastino”, l’addetta stampa che lo proteggeva da tutto e da tutti permettendogli di vivere lontano da seccature mediatiche nel suo eremo in Sardegna o nella casa a Milano. Perché non era dato sapere nemmeno dove lui si trovasse in quel periodo. Un bicchiere di vino, da bere insieme scambiandosi qualche parola. Tutto qui.

 

 

Io ero una redattrice di Tv Sorrisi e Canzoni e mi ero messa in testa di intervistarlo sul suo disco pubblicato da poco, (era l’ottobre del 1996) “Anime salve”. Dalla mia avevo la potenza del settimanale più venduto in Italia e soprattutto la presenza come condirettore di quella che era stata la sua prima addetta stampa, oltre che un’amica, Rosanna Mani. Ma De André non ne voleva sapere. Il mandato era “non fa interviste”. Aveva acconsentito a un ristretto incontro stampa alla presentazione del disco e stop. Dopo diverse insistenze e una trattativa estenuante aveva ceduto all’intervista ma alla sua maniera: io gli avrei dovuto inviare le domande per fax e lui mi avrebbe mandato le risposte. Acconsentii a malincuore: come può un poeta arrendersi a un mezzo freddo e distaccato come il fax? Glielo scrissi pure, promettendo e assicurando ogni controllo da parte sua. Non ci fu niente da fare: prendere o lasciare. Naturalmente presi.

 

 

Ma subito dopo andai nella stanza del mio direttore di allora esponendo il mio piano: chiesi che mi facessero partire per Olbia e da lì andare con una macchina presa a noleggio a L’Agnata, il suo agriturismo vicino a Tempio dove era possibile anche cenare. L’idea era quella di prenotare (sotto falso nome per non rischiare di essere riconosciuta come la giornalista insistente) una cena per due e di sperare che De André fosse lì. A quel punto mi sarei palesata chiedendogli solo la possibilità di bere un bicchiere di vino insieme. Giusto per guardarlo negli occhi. Giusto per poterlo conoscere e quindi descrivere nel mio articolo. Come buona parte degli italiani ero innamorata di quella figura iconica, di quella voce “evocativa”, di quell’aura di solitudine cercata e perseguita con determinazione, con ostinazione. Poi me ne sarei tornata buona buona a Milano e avrei aspettato che il fax vomitasse le risposte. Il piano aveva parecchi punti deboli: poteva anche essere un colossale buco nell’acqua. Poteva essere che io arrivassi a L’Agnata per scoprire che lui si trovava a Milano. Ma saperlo non era dato. Il mio direttore Pierluigi Ronchetti era perplesso: “E se non c’è?”; “E se c’è e si indispettisce?”; “E se ci chiude per sempre la porta?”. A Rosanna invece l’idea piacque molto: “Se lo conosco bene piacerà anche a lui. D’altra parte non stai violando gli accordi visto che l’intervista la faremo, come lui desidera, per iscritto. Vai solo per il bicchiere di vino”.

 

 

Nel giro di un giorno organizzai il mio viaggio al buio: chiamai L’Agnata e prenotai una cena per due. Non ricordo il nome che utilizzai ma non era il mio. Poi l’aereo per Olbia, la macchina a noleggio e un piccolo hotel a Tempio. Poco prima dell’ora di cena telefonai per dire che la persona che sarebbe dovuta venire con me non stava bene ma che io sarei andata lo stesso lì a cena. Mentre guidavo verso la sua azienda agricola ricordo il buio assoluto delle strade. Ricordo la paura di sbagliare percorso, quella di arrivare tardi e soprattutto quella di non trovarlo.

 

Appena arrivai mi accolse Agostino, il fattore, e mi fece entrare in una grande cucina dalla quale si accedeva alla sala. Mentre passavo lo vidi. Maglione blu, ciuffo sugli occhi. Feci finta di niente e tirai dritto. Non volevo metterlo in imbarazzo. Visto che ero sola avevano deciso di farmi stare nel tavolo con altre due coppie. E così trascorsi una lunghissima serata a parlare di tutto pur di non stare zitta. Le due coppie erano d’età parecchio più grande della mia ma non era un problema. Mangiai gli antipasti, il primo, il secondo. Ci passò ben più di un bicchiere di vino, tanto per stemperare la tensione che mi stringeva lo stomaco. Mi vergognavo tantissimo. Continuavo a mentire ai miei commensali: nessuno sapeva che ero una giornalista. Arrivò anche il dolce e il caffè. E la sala cominciò pian piano a svuotarsi. A un certo punto, oltre la mezzanotte, anche le mie due coppie-scudo decisero di andar via. Io invece dissi che mi sarei trattenuta ancora un po’, non senza cogliere i loro sguardi curiosi. O forse perplessi.

 

Finché in quella grande sala rimasi da sola. Io e basta. Fu a quel punto che scrissi un biglietto a mano. Scrissi che ero la giornalista che non voleva arrendersi al fax. E che ero arrivata apposta da Milano per incontrarlo e per bere un bicchiere di vino con lui. Sapevo che lui avrebbe capito subito. Diedi il biglietto ad Agostino. E aspettai. Non so quanto. A me sembrarono minuti eterni. A un certo punto dalla porta entrò De André: “Dov’è la giornalista che detesta il fax?” disse a voce alta guardandosi in giro, anche se intorno non c’era nessun altro oltre me. Lo ripeté più volte, io gli sorridevo. Si sedette al mio tavolo. Era molto incuriosito ma anche diffidente, come solo noi sardi sappiamo essere. All’inizio il nostro più che un dialogo fu un match. Non riusciva a capire cosa volessi da lui. Ma iniziammo a parlare. Trascorsero i minuti e poi le ore. Davanti a me avevo una bottiglia di filu ’e ferru, la grappa sarda, della quale mi servii più volte. Lui fumava come un turco. Io pure. La svolta fu quando gli chiesi di parlarmi della “sarditudine”: Fabrizio era una delle persone più colte che abbia conosciuto nella mia vita. Un affabulatore straordinario. Cominciò a raccontarmi dei canti a tenores e del significato simbolico delle varie figure che li compongono. Ogni tanto li cantava pure. Parlammo di un sacco di cose ma ero troppo emozionata e alticcia per ricordarmele. Ciò che mi è rimasto impresso in maniera indelebile invece è la sensazione di paradiso a due passi. E quella preghiera silenziosa che sentivo dentro di me sussurrare: “Ti prego, fa che continui ancora”. Arrivarono le quattro del mattino e io e Fabrizio avevamo già preso accordi. Fu lui a dettarli: “Facciamo così, visto che sei qui l’intervista possiamo farla di persona ma per iscritto così siamo contenti tutti e due. Ora tu vai in albergo e io a letto. Domani notte mi metto a scrivere le risposte perché io lavoro solo di notte. E poi dopodomani nel primo pomeriggio torni qui e l’intervista la buttiamo giù insieme”.

 

Mi avviai alla macchina e guidai piano fino a Tempio. Stracotta e beata. Quella notte dormii quasi niente. Dopo un paio d’ore ero già in viaggio verso la mia Cagliari dove trascorsi un giorno e una notte. Pronta a ripartire per l’Agnata il giorno prefissato. Tornai che erano più o meno le due del pomeriggio. De André si era svegliato da poco e beveva un brodo caldo di capra. Andammo in una stanza. Forse il suo studio. Lui aveva con sé i fogli scritti a mano con le risposte. Ci sedemmo a tavolino e iniziammo a lavorare. L’intervista fu veramente un lavoro a due. Era preciso e attento, come me. Spostavamo domande di qua e di là, tagliavamo risposte. Io trascrivevo tutto a mano perché lui di darmi i suoi fogli non ne voleva sapere. Credo sia stato uno dei più bei pomeriggi della mia vita. Ogni domanda era l’occasione per approfondire un tema. Parlammo di letteratura e di agricoltura, del successo e della solitudine.

A un certo punto uscimmo fuori e mi fece vedere la tenuta. Il laghetto, gli alberi, l’orto: il suo mondo, il suo orgoglio. Lì la sua cameriera Tonina ci scattò una foto che conservo ancora. Lui mi disse: “Non guardiamo in macchina ma verso l’orizzonte”. E la foto uscì così: con me che scrutavo un punto indefinito del paesaggio e lui che guardava me. Ci salutammo. Dovevo prendere l’aereo per Milano e arrivare per tempo a Olbia. Guidai come in trance: al posto delle marce l’incredulità, al posto del volante la felicità più assoluta. Poi scrissi l’intervista. Ricordo che per buttare giù l’attacco ci misi tantissimo: mi censuravo continuamente. Mi proibivo qualsiasi emozione. Ero una cronista e punto. Quando l’intervista uscì, seppi che a Fabrizio era piaciuta tantissimo. Il bicchiere di vino, invece, rimase per sempre una promessa. Rinnovata a ogni incontro successivo.

 

 

( Fonte Cinzia Marongiu )

Roberto Gatti

Giudice degustatore ai Concorsi Enologici Mondiali più prestigiosi tra i quali: » Il Concours Mondial de Bruxelles che ad oggi ha raggiunto un numero di campioni esaminati di circa n. 9.080, dove partecipo da 13 edizioni ( da 9 in qualità di Presidente ); >>Commissario al Berliner Wine Trophy di Berlino >>Presidente di Giuria al Concorso Excellence Awards di Bucarest >>Giudice accreditato al Shanghai International Wine Challenge ed ai maggiori concorsi italiani.

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