Fino a qualche decennio fa esportavamo soprattutto il vino nei fiaschi, come racconta John Fante in tutti i suoi romanzi ambientati in California. Adesso siamo una superpotenza del vino di qualità. In ordine sparso. Piccoli vignaioli e grandi aziende. Che ora hanno un nuovo compito: fare dei grandi vini dei marchi conosciuti in tutto il mondo.
( Achille Boroli, Pierre Lurton e Giovanni Geddes (ph canio romaniello/ olycom)
Il vino italiano è una locomotiva dell’export: 5 miliardi di euro nel 2013, con un balzo del 7,5% sull’anno precedente. Va così da un decennio, ogni 12 mesi un nuovo record, con gli Stati Uniti che beve o sempre più e sempre meglio, e decine di Paesi, oltre a quelli europei, che importano le nostre bottiglie. Come fare meglio? Se n’è parlato al Boroli Wine Forum ad Alba, quest’anno dedicato al “valore del marchio”. Evento della famiglia di Silvano Boroli, che nella precedente vita era al vertice della De Agostini e da 16 anni si è trasformato in viticoltore (Barolo, Barbera e altro) con la moglie Elena e il figlio Achille. In cattedra sono saliti i francesi, che riescono a vendere i loro supervini a prezzi molto più alti di quelli italiani.
Pierre Lurton di Chateau d’Yquem, il dolce mito del vino con 400 anni di storia, ha dato la linea:
“Non fate il vino seguendo il battito cardiaco di Robert Parker, il critico americano, puntate su vini che sappiano viaggiare nel tempo, vini che trasportano lontano, che sappiano viaggiare e far viaggiare nel tempo”.
Una presa di distanza dalle mode, dai prodotti costruiti a tavolino.
“Non è con la migliore barrique che si fa il miglior vino, ma tenendo conto anche delle imperfezioni, l’assenza di difetti è noiosa anche sul viso di una bella donna. Così si creano grandi marchi”.
“E poi bisogna difenderli dai parassiti e dai contraffattori – spiega Pierre Godé, vice presidente di LVMH, il gruppo di Bernard Arnault che tra i suoi 68 marchi comprende gli champagne Dom Perignon e Veuve Cliquot – con Internet il problema è peggiorato”. Anche nel vino, vengono usate bottiglie originali e riempite con vino comune. “Ma la Rete è anche una grande opportunità”, secondo Godé, “per i vostri marchi usate di più Internet, chi compra l’eccellenza vuole conoscere storie e persone, raccontatele sui vostri siti”.
E l’Italia? “ Sarebbe un delitto trascurarla”, riflette Carlo Paoli, direttore di Tenuta San Guido, quella del Sassicaia, sul mercato internazionale dal 1968. “Vendiamo qui il 42% delle nostre bottiglie, nonostante le incertezze sugli incassi, la crisi, l’inflazione di etichette. Sarebbe molto più facile portare tutto in Cina, dove riceviamo il doppio delle richieste che soddisfiamo. Ma la nostra azienda deve restare legata al territorio”. Come ha ribadito Giovani Geddes, amministratore delegato di Masseto.
“Con entusiasmo e senza mollare mai, come ha spiegato Roberto Conterno, terza generazione dell’azienda di famiglia, raccontando di aver da poco bevuto una bottiglia di Barolo del 1945 del nonno Giacomo: “Sogni che diventano emozioni, duraturi. Per un marchio che ci renda orgogliosi di vivere nelle Langhe e di vendere in tutto il mondo”. Luca Currado, “piccolo artigiano del Barolo” con il marchio Vietti, elenca i 5 fattori indispensabili per un marchio: “si costruisce con storia, territorio, dedizione e lavoro dell’uomo, qualità, la famiglia”.
( Fonte divini.corriere.it )
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