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Il successo dei vini secondo Mastroberardino: Business all’estero, radici salde in Campania

Tra le realtà enologiche più importanti d’Italia per storia, immagine e per volume d’affari (1,8miliardi di euro, il 15 per cento del fatturato complessivo del vino italiano), il 2014 si è aperto all’insegna dell’ottimismo: per l’88 per cento delle cantine le vendite nel primo trimestre sono cresciute del 7,5 per cento e il “sentiment” resta positivo anche per i prossimi mesi.

Se i dati sull’export del vino italiano, presi nel loro insieme, appaiono confortanti, a una analisi più attenta il bicchiere potrebbe essere più vuoto che pieno. Il consumo globale si sta spostando verso oriente e proprio qui scontiamo in maniera decisiva la nostra cronica incapacità di fare sistema e di promuovere efficacemente i nostri prodotti, perdendo fette di mercato. “La storia consiglia di puntare sì sui mercati esteri ma di non abbandonare nè sottovalutare mai il mercato tradizionale, poiché la credibilità di un brand pare non poter prescindere dalla sua riconoscibilità e dal posizionamento nel proprio Paese d’origine”, spiega Piero Mastroberardino, docente di Economia presso l’Università degli Studi di Foggia, erede dell’omonimo gruppo creato dal Cavaliere Antonio, il grande pioniere della divulgazione dei vini italiani nel mondo scomparso lo scorso gennaio.

 

Secondo i dati Istat elaborati da Vinitaly-Assoenologi, il 2013 ha fatto registrare un nuovo record in valore per le esportazioni del vino italiano all’estero, superando per la prima volta la soglia dei 5 miliardi di euro. Possiamo dire che le aziende italiane riescono a competere con successo nel mondo?

Pur potendo confermare il trend in ripresa non solo sui mercati esteri,ma anche su quello domestico, sono sempre prudente, per non dire scettico, quando ho da commentare dati così aggregati. L’offerta di vini della filiera italiana è talmente ampia e varia che è difficile farsi un’idea da cifre generali.

 

La crescita dell’export non è sinonimo di maggiore competitività?

Indubbiamente l’export è stato, giocoforza, uno sfogo permolte aziende italiane del settore, a fronte di una compressione dei consumi interni. In un’ottica aziendale, in prima analisi ciò che conta è il mercato globale nel suo insieme, ma a seguire è utile indagare più accuratamente il trade-off tra il calo dei consumi interni e la crescita del business oltreconfine e comprendere quali segmenti di offerta abbiano modificato i propri sbocchi e a quali condizioni, investimenti emargini. Meglio puntare sul business oltre confine o potenziare il mercato interno? Investire su paesi in crescita con capacità di reddito e di spesa superiori al nostro è una strada ovviamente auspicabile, sembra quasi banale. Eppure non bisogna trascurare il fatto che il mercato tradizionale italiano è stato anche in passato un’àncora importante per le nostre aziende: la storia consiglia di non abbandonarlo, né di sottovalutarlo, poiché la credibilità di un brand pare non poter prescindere dalla sua riconoscibilità e dal posizionamento nel propriobPaese d’origine.Dunque una riflessione più accurata suggerisce di non sguarnire le proprie posizioni competitive sul territorio nazionale, alimentando di pari passo l’investimento suimercati esteri. Anche queste opzioni hanno pesato sulla gestione delle aziende di settore.Una strategia di tal tipo nel breve, durante la sfavorevole congiuntura italiana, può avere un prezzo elevato, ma penso che nel medio-lungo sia più prudente e lungimirante.

 

Come valuta il livello delle imprese del settore in Campania?

Per quel che riguarda la Campania, la prima cosa da fare sarebbe definire l’attuale imprenditoria del vino. La storia della nostra regione nel settore era fiorentissima un secolo fa. Negli ultimi decenni invece era rimasta sostenuta da pochissime menti e braccia. Aparte qualche caso storico che non è qui il caso di evocare (onde evitare di apparire autoreferenziali), tutto il panorama imprenditoriale regionale che attualmente si agita sui mercati ha circa vent’anni di storia. E questo per il mondo del vino è decisamente anomalo.

 

Si tratta di imprese troppo giovani?

Le scelte di gestione in questo settore si metabolizzano entro un respiro temporale più ampio, dunque tenendo conto di fluttuazioni, fasi espansive, depressioni di mercato, ma mantenendo nervi saldi e spaziando con la mente oltre le congiunture. È consigliabile avere un approccio al business non troppo d’avventura, guardando più lontano dell’oggi, delle giacenze di magazzino di un anno, perché esse assumano la giusta veste, di opportunità più che di problema da risolvere.

 

Che cosa accade in caso contrario?

Quando mancano i tempi perché una simile maturazione avvenga, si assiste a fenomeni come quelli che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, aziende che, pur di alleggerire il magazzino, accettano di svilire l’immagine dei prodotti, producendo danni sulla percezione da parte del pubblico non solo della propria marca, ma di territori interi. Perché è questa la delicata responsabilità che porta addosso l’imprenditore del vino, il connubio tra marca privata e marca territoriale non consente di sciogliere mai del tutto questo nodo, nel bene e nel male. E questi sono solo i casi più eclatanti.

 

Ce ne sono altri?

Aggiungerei gli episodi di perdita d’identità connessi alla ricerca di un’immagine di “finti” innovatori: è la condotta di coloro che cambiano di continuo i prodotti, anche solo il naming e la veste estetica, perdendo così la continuità del messaggio di vino-territorio-brand che caratterizza il vero fascino distintivo delle antiche famiglie del vino.

 

Qual è la forza del brand mastroberardino?

Il poter raccontare con documenti, lettere, immagini, ma soprattutto con bottiglie pienamente espressive e godibili, decenni o secoli di storia familiare, di vicende personali di predecessori, antenati, pionieri che hanno portato per il mondo il messaggio dei vini irpini al di là di ogni razionale valutazione. Innovazione, in particolare nel nostro mondo ma a mio avviso non soltanto, sta nel saper esplorare le proprie potenzialità senza rinnegare, creare fratture con le proprie origini.

 

L’export del vino è è in ascesa da cinque anni fino a conquistare, quest’anno, il primato tra le produzioni alimentari più vendute oltre confine. Su cosa puntare per rafforzare il trend?

Per rafforzare il trend bisogna lavorare sui fondamentali della nostra filiera. Nonostante risultati positivi, non possiamo far finta di non vedere certi punti di debolezza che la caratterizzano. C’è un problema di eccessiva frammentazione produttiva, dei brand e delle offerte; vi sono poi degli squilibri sotto il profilo della capitalizzazione delle imprese, determinati dalle caratteristiche stesse di certi asset agroindustriali. In estrema sintesi permane un endemico problema di competitività, che è connesso in buona parte all’eccessivo peso burocratico complessivo della filiera italiana.

 

Circa 4mila aziende hanno appena animato Veronafiere per la 48ª edizione di Vinitaly cercando di intercettare i 50mila operatori esteri in arrivo da 120Paesi: quali sono le sue impressioni da operatori del settore?

La sensazione è che ci sia una gran voglia da parte degli operatori professionali del mondo del vino di ritrovare i propri fondamentali valori di pregio, di tornare a parlare di vino e scrollarsi di dosso la pesantezza dei temi della crisi. Per troppo tempo si è parlato d’altro.

 

 

( Fonte denaro.it )

Roberto Gatti

Giudice degustatore ai Concorsi Enologici Mondiali più prestigiosi tra i quali: » Il Concours Mondial de Bruxelles che ad oggi ha raggiunto un numero di campioni esaminati di circa n. 9.080, dove partecipo da 13 edizioni ( da 9 in qualità di Presidente ); >>Commissario al Berliner Wine Trophy di Berlino >>Presidente di Giuria al Concorso Excellence Awards di Bucarest >>Giudice accreditato al Shanghai International Wine Challenge ed ai maggiori concorsi italiani.

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