Negli ultimi anni, una grande fetta di pubblicità si è spostata sui siti di cucina e di food blogger
Negli ultimi anni l’investimento pubblicitario si è progressivamente spostato dalla carta stampata e dalle tv su internet.
Stiamo parlando di cifre consistenti visto che secondo l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria complessivamente l’online advertising è lievitato dal 3% nel 2007 al 26,6% del 2015. La crescita ha coinvolto in misura rilevante anche il settore alimentare. Il fenomeno ha interessato moltissimo le pagine dei siti e dei che propongono ricette. Il problema è che la pubblicità non si palesa sempre con i tradizionali banner ben riconoscibili, ma viene veicolata sempre di più attraverso pagine gestite o affidate a food blogger, chef, pizzaioli e appassionati di cucina. Grazie alla fama e alla capacità di orientare gli acquisti con i loro consigli, alcuni food blogger che possono contare su centinaia di migliaia di fan, e rientrano a buon diritto nella categoria degli “influencer”. Per questo motivo le grandi aziende indirizzano una parte rilevante del budget pubblicitario destinato alla rete in questa direzione.
Il problema è capire quando il food blogger realizza un filmato o una ricetta sollecitato da uno sponsor, e quando invece scrive liberamente senza un vincolo di natura economica. La questione è delicata, perché il lettore ha il diritto di sapere quando sta leggendo un messaggio sponsorizzato e quando legge un articolo o una nota frutto del libero pensiero. Si tratta di una regola fondamentale valida per tutto il mondo dell’informazione compresa la rete, come viene evidenziato dalla recente Digital Chart (documento pubblicato dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria sul tema della trasparenza della pubblicità in rete). Quando si legge un articolo, si esamina una ricetta, si vede un filmato o una foto il lettore deve sapere e capire se c’è un inserzionista che ha contribuito in parte o ha pagato l’intero servizio.
Nei blog di ricette non è sempre facile distinguere il contenuto sponsorizzato da una citazione spontanea
Fino ad ora nel mondo del giornalismo solo alcuni giornalisti e direttori di giornali provano ogni tanto aa violare le regole, proponendo finti articoli finti per pubblicizzare prodotti veri, a fronte di un compenso economico o di altri vantaggi (viaggi…). Adesso il problema si pone molto seriamente anche per la rete dove si trovano decine di siti e personaggi che propongono: ricette, filmati di showcooking con prodotti sponsorizzati senza dichiarare il legame con l’azienda e facendo pubblicità mascherata. Per il lettore diventa davvero difficile distinguere un articolo, una ricetta, una recensione vera, scritta da un giornalista, da un collaboratore o da un food blogger, da un articolo finto o dalla ricetta supportata da uno sponsor. Come si fa a capire quando i prodotti vengono citati spontaneamente dal food blogger perché rientrano nell’esperienza personale, e quando vengono mostrati in seguito a una sponsorizzazione. Questo modo di fare pubblicità in modo “occulto” è l’ultima frontiera delle aziende. Quella che in gergo giornalistico si chiama “marchetta”, adesso è diventata la nuova modalità di presentare ai consumatori i prodotti utilizzando un testimone “familiare” come farebbe il vicino di casa o l’amico.
L’articolo 7 del Codice di autodisciplina che tutte le aziende sono tenute a rispettare (Identificazione della comunicazione commerciale) dice che la pubblicità “deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere e ….deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”. Le grandi aziende che stipulano contratti con food blogger, hanno il dovere di essere trasparenti e di pretendere che i servizi sponsorizzati siano chiaramente distinguibili. Il rispetto di questa regola è fondamentale. La responsabilità dei grandi marchi nel pretendere trasparenza dai food blogger e dai siti che propongono ricette quando presentano prodotti sponsorizzati non ammette deroghe. Oltre a ciò serve una necessaria azione da parte del Comitato di controllo dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria nei confronti delle imprese e dei siti che non rispettano il codice.
Secondo l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, se l’inserzione non è immediatamente riconoscibile va segnalata e ritirata
In un’intervista a Paolo Peroni socio dello studio legale Rödl & Partner ed esperto del settore, pubblicata da Wired si legge “L’articolo 23 del Codice del consumo considera illecita la condotta consistente nel dichiarare o lasciare intendere, contrariamente al vero, che un soggetto stia agendo quale consumatore e non nell’ambito di un’attività remunerata. Volente o nolente, il blogger che agisce quale testimonial di un brand è tenuto a rivelarlo ai propri follower. È un terreno scivoloso – prosegue Peroni – perché la forma di remunerazione non consiste solo nella corresponsione di un compenso, ma anche con forme di incentivo come il prestito di una borsa o l’invito a una manifestazione”. Se il messaggio non è chiaro, si rischiano sanzioni fino a un milione di euro per pubblicità occulta, a carico sia delle aziende sia degli influencer.
Nel 2016 l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria ha redatto una Digital chart con le norme per le promozioni sul web in cui si dice “Il fine promozionale del commento o dell’opinione espressa da celebrity/influencer/blogger, qualora non sia già chiaramente riconoscibile dal contesto, deve essere reso noto all’utente con mezzi idonei”. La carta prevede l’inserimento di hashtag abbinati alla campagna pubblicitaria, oppure il link al sito dell’azienda oppure taggando il profilo social della società nel post. Si tratta di sistemi nuovi che solo in parte vengono rispettati e, comunque, spesso si rivelano insufficienti per fare capire al lettore quando la notizia o la ricetta è sponsorizzata.
( Il Fatto Alimentare )