La partita di vino individuata dagli ispettori del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali non aveva nulla a che fare con la Sicilia
Una partita da 600 bottiglie di Nero d’Avola taroccato è costato il processo a un imprenditore riminese che, davanti al giudice, deve rispondere di frode. La vicenda era iniziata nel 2013 quando, in un centro di distribuzione di bevande, erano arrivati gli ispettori del Ministero Politiche Agricole e Forestali per controllare la genuinità del vino. Effettuati i campionamenti, dal laboratorio era arrivato un referto impietoso: quello contenuto nelle bottiglie era tutto tranne che il prodotto del vitigno omonimo. Gli accertamenti, infatti, avevano permesso di scoprire che il vino di quella partita non solo era annacquato ma, anche, che la percentuale alcolica non era la stessa di quella riportata sulle etichette e che le uve utilizzate non erano quelle previste dalla normativa Doc e Docg. L’intera partita era finita sotto sequestro e, risalendo all’etichettatura, era finito nei guai l’imprenditore riminese che l’aveva imbottigliato.
Difeso dall’avvocato Monica Rossi, tuttavia, il legale rappresentate dell’azienda riminese aveva spiegato che la ditta, sull’orlo del fallimento, aveva venduto tutte le apparecchiature a una società veneta che, a sua volta, si era occupata dell’imbottigliamento del “Nero d’Avola” utilizzando delle vecchie etichette che riportavano il codice meccanografico dell’impresa di Rimini. Nella giornata di mercoledì, sul banco dei testimoni, è salita sia la responsabile del centro analisi, che ha confermato come il vino nelle bottiglie non era quello riportato dalle etichette, che il dipendente del centro di distribuzioni che ha spiegato al giudice come quella partita fosse stata acquistata al prezzo di 70/80 centesimi a bottiglia. L’udienza è stata quindi aggiornata al prossimo 20 luglio quando, a testimoniare, sarà l’imputato e il curatore fallimentare dell’azienda riminese.
( Fonte Riminitoday )