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Clinto: se lo conosci …( lo eviti ? ndr )

Sono consapevole che lo scritto che segue finirà per alienarmi diverse simpatie, ma tant’è: non riesco più a contenermi sull’argomento.

 

La recente cronaca locale ha visto ben tre distillerie vicentine (Schiavo di Costabissara, Brunello di Montegalda e Capovilla di Rosà – per le quali nutro la massima stima) multate per aver messo in commercio distillati ottenuti dal frutto o dalle vinacce di clinto.

 

Non desidero entrare nel merito, ma uso questo episodio quale pretesto per esternare il mio pensiero sul clinto, sbandierato qui in provincia sempre più spesso come esempio di identità locale e tradizione da salvaguardare.

 

Andiamo con ordine: cos’è il clinto o clinton ?

 

E’ un ibrido produttore diretto, ottenuto dall’incrocio di due specie americane (Vitis labrusca x Vitis riparia), cioè dall’incrocio di due specie vegetali che sono imparentante con la vite europea (Vitis vinifera).

 

( Grappolo di Vitis riparia, uno dei “genitori” del clinto )

 

 

Se assumiamo quindi che per legge può chiamarsi “vino” solo il prodotto della fermentazione alcolica del frutto della Vitis vinifera, appare chiaro che l’utilizzo di tale termine è precluso per altri tipi di frutta.

 

Per i più “gnucchi”, ancora convinti che sempre e solo di grappoli d’uva si tratti, faccio un parallelo con altre specie vegetali.

 

Credo sia chiaro a tutti che, sebbene simili (colore a parte), more e lamponi NON siano la stessa cosa.

 

( lamponi e more )

Colore a parte, la struttura dei frutti del rovo e del lampone è la stessa, come nel caso dei frutti delle piante del genere Vitis

 

Scientificamente le more di rovo sono i frutti del Rubus ulmifolius, mentre i lamponi sono i frutti del Rubus idaeus.

 

Vale a dire che tra more e lamponi c’è lo stesso grado di separazione esistente tra il cabernet (o il merlot, o la garganega, o quello che preferite) e il clinto (o noah, o il bacò, o quello che preferite).

 

L’utilizzo di specie americane congeneriche della vite europea è dovuto alla diffusione in Europa, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, della fillossera, un insetto proveniente dal continente americano che iniziò ad attaccare viralmente le viti, provocando danni irreparabili.

 

Il dannato insetto attacca diversamente le varie specie del genere Vitis: nel caso della vinifera distrugge le radici della pianta, mentre nelle viti americane, più resistenti a causa del prolungato adattamento evolutivo a contatto con la fillossera, attacca l’apparato foliare.

 

L’avvento della fillossera fu catastrofico: i prestigiosi vigneti europei rischiarono seriamente di soccombere a questo attacco.

 

( 1890: una vignetta del giornale satirico britannico “Punch” ironizza sull’avvento della fillossera )

 

Per correre ai ripari si sperimentarono incroci fra le varie specie americane del genere Vitis e incroci tra specie americane e vinifera. Si fece ricorso così gli ibridi produttori diretti, come il clinton (che prende il nome dalla località statunitense di Clinton, da dove probabilmente vennero importate le prime barbatelle).

 

Nel volgere di qualche decennio, si scoprì che innestando la vite europea sull’apparato radicale di viti americane si impediva alla fillossera di danneggaire le preziose varietà europee, frutto di una selezione lunga migliaia di anni.

 

( Annuncio Fillossera )

Un annuncio pubblicizza la vendita di ibridi produttori diretti e viti innestate su piede americano negli Stati Uniti: siamo alla fine del 1800.

 

Nel frattempo però, gli ibridi produttori diretti avevano soppiantato la vite europea in alcuni territori, in particolar modo quelli più poveri o nelle porzioni di questi dove minore era la tradizione vitivinicola.

 

In Veneto la diffusione di tali ibridi avvenne tra l’ultimo decennio del 1800 e il 1920.

 

Va detto che il prodotto degli ibridi produttori diretti è, dal punto di vista qualitativo, nettamente inferiore a quello dato dalle varietà della Vitis vinifera. Maggiore è inoltre la quantità di alcol metilico presente e si hanno residui di acido cianidrico, per cui l’abuso delle bevande ottenute dalla fermentazione di tale tipo di frutta può creare danni alla vista (l’avvelenamento da metanolo colpisce la retina e il nervo ottico).

 

Con l’introduzione del portainnesto americano, veniva meno la necessità di ricorrere a tali prodotti, secondo la massima aurea:

 

“… ora che avete trovato la soluzione, che ve ne fate di un vino di merda del genere ?”

(cit. Fausto Maculan)

 

Alcol metilico a parte, una serie di misure protezionistiche a favore della vite europea, ha sancito a più riprese, anche a livello comunitario, il divieto di commercializzazione dei prodotti DERIVATI dagli ibridi produttori diretti, con una deroga per l’uva fragola, perché prodotta non da un ibrido, ma da una specie americana “pura”, ovvero la Vitis labrusca (con l’avvertenza comunque di non chiamarlo “vino”).

 

Se riassumiamo quindi il quadro della situazione, il mio pensiero può riassumersi così:

 

La bevanda ottenuta dalla fermentazione del frutto degli IPD è di qualità scadente e comunque non comparabile al vino (inteso esclusivamente come prodotto della Vitis vinifera).

Affermare che il clinton e gli altri IPD facciano parte della nostra storia e delle nostre tradizioni è un falso storico, dato che la loro introduzione è relativamente recente (parliamo di poco più di un secolo, periodo che appare risibile di fronte alle varietà di uva preesistenti). Limitando la cosa alla provincia di Vicenza, dove la “battaglia” per il clinto sembra essere più accesa, la vera tradizione va ricercata nelle varietà di vinifera coltivate da tempo immemore sul territorio e infinitamente più rappresentative, come garganega, durella e molte altre, citate per esempio sul “Roccolo Ditirambo” di Aureliano Acanti, opera del 1754 (quindi antecedente di oltre un secolo all’introduzione degli IPD sul territorio).

E’ pretestuoso e fuorviante, a mio avviso, riconoscere la de.co. (*) per un prodotto che non può essere messo in commercio, come è successo per il comune vicentino di Villaverla, non fosse altro perché l’operazione non crea alcun ritorno economico. Maggiori benefici si otterrebbero facendo ricerche sulle varietà elencate per lo stesso comune dal già citato “Roccolo Ditirambo” ambientato proprio a Villaverla e che cita, per la località di Novoledo, la coltivazione del lambrusco (oggi non più presente, probabilmente annientato dalla stessa fillossera).

Appare discutibile il tentativo di parificare il clinto alle varietà della vinifera: il clinto fu un prodotto della disperazione generata dalla distruzione del vigneto europeo da parte della fillossera ed un succedaneo del vino. E’ come se dicessi che il caffé di cicoria ha la stessa dignità del caffé vero o che le uova di lompo sono la stessa cosa del caviale.

Fatte queste puntualizzazioni, alla fine penso che il divieto di commercializzazione possa tranquillamente essere tolto, ma la battaglia per la legalizzazione del clinto deve partire da altri presupposti e sottolineando, a difesa del consumatore finale, la storia che ha portato questo frutto sulle nostre tavole e le differenze abissali con le varietà di vinifera.

 

Nonostante tutto, il profumo dei grappoli di clinto, maturi da metà agosto, rimane inebriante ed evoca alla mente ricordi di una infanzia passata a rubarne qualche grappolo nelle scorribande campagnole e di una adolescenza dove un “goto” di quel liquido impenetrabile, acidulo e sgraziato era una costante dei giorni di festa …

 

… ma concedetemi che il vino è davvero un’altra cosa.

 

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(*) su come venga utilizzato lo strumento della de.co. per il momento taccio, giusto per tenermi quei tre lettori rimasti alla fine di questo articolo.

 

 

( Fonte vitisblog.wordpress.com )