Le giornate scorrevano calde e lente, nell’estate del 2012, quando tre baldi giovani appassionati dell’arte bianca, non contenti di dover sopravvivere ad afose giornate con 40 gradi celsius di media, decisero di perfezionare la propria conoscenza in materia di specialità gastronomiche della propria terra intrufolandosi il quel di Piana degli Albanesi. Obiettivo della spedizione: capire, studiare, riprodurre – e soprattutto mangiare – il cannolo.
Chiedono dunque ospitalità a “La Piana delle Bontà”, noto punto di ristorazione del luogo, e grazie alla pazienza di Gianfranco Sampino, il pasticcere, nonché a quella di Gino e Valentina, i due validissimi collaboratori,
i nostri eroi si prodigano per rubacchiare qua e là i segreti di una cialda che, non me ne vogliano i palermitani, è davvero speciale e a mio modestissimo parere forse l’unica che possa rendere per davvero il cannolo una torcia olimpica della sicilianità, u “scettru di ogni re e virga di Mosè”, come lo definì un poeta palermitano del XVII secolo. Una cialda talmente leggera e friabile, da sostenere la ricotta facendone godere a pieno del sapore in maniera assolutamente non invadente, essendo priva del retrogusto “fumè” della sorella del capoluogo. Sorpresi dalla genuina disponibilità del personale dell’azienda che li ospitava, per nulla restio a trasmettere il proprio sapere, i tre si immergono in un intenso viaggio durato una manciata di ore, pronti a sporcarsi le mani.
Leggenda vuole che le suore di un convento, per alcuni a Palermo, per altri aCaltanissetta, prese dalla noia decisero di fare uno scherzo per Carnevale, e crearono delle cialde che imitavano i rubinetti delle fontane, ossia i “cannoli”. Solo che dal cannolo non usciva acqua, bensì una crema di ricotta con gocce di cioccolato, o canditi o entrambi. Una ricotta che poteva essere più o meno setacciata attraverso un passino. Forse, molto più semplicemente il nome era dato dallo strumento che permetteva alla cialda di assumere quella forma durante la frittura: un pezzetto di canna, di legno, come le canne di linneiana memoria, per intenderci, quelle che crescono altissime lungo i fiumi o le zone acquitrinose. Per i più maliziosi, il cannolo voleva sublimare le insoddisfatte lascive voglie delle monache. In ogni caso, ogni provincia della Sicilia ha il “suo” cannolo, ed è, ovviamente, il cannolo migliore di tutti!
Ma torniamo un momento ai nostri eroi, prodi studiosi venuti dal capoluogo siculo, che avevamo lasciato nelle mani del pasticciere Gianfranco, il quale, senza pietà alcuna, li mise subito all’opera, o “al firrio” che dir si voglia. Preparate le dovute quantità di farina, zucchero, strutto, aceto di vino e acqua (prima i grassi con gli zuccheri, poi si aggiungono i liquidi e infine la farina) si produce un impasto vagamente violaceo, elastico, quasi colloso, che va fatto riposare una notte intera, coperto, perché non si asciughi troppo specie nella stagione estiva. Dovesse accadere, è possibile riprenderlo con del rhum. Gianfranco, lo chef, ci suggerisce però di non utilizzare l’aceto, ma solo il vino nel caso in cui volessimo fare dei cannolicchi, il motivo è semplice: l’aceto è l’ingrediente responsabile delle bolle e una cialda molto piccola e con tante bolle difficilmente reggerebbe la crema !
Fin qui, niente di complicato, ma il meglio doveva ancora arrivare… la creazione del lenzuolo! Si, perché la pasta va stesa, con infinita pazienza e una buona manualità, con la sfogliatrice per scongiurare eventuali strappi, per quanto non siano nulla di serio e irrecuperabile, fino a diventare una lunghissima e sottilissima sfoglia, da ritagliare tante e tante volte con un tagliapasta a forma di rombo, con i lati tanto lunghi per quanto vogliamo che sia grande il nostro cannolo Lascio soltanto immaginare la paura dei nostri nel portare l’impasto allo spessore di una carta velina o quasi perché mai avevano maneggiato una sfoglia tanto lunga e sottile… ma è a questo che serve l’esperienza, no?
Le losanghe, sistemate con cura una dopo l’altra, vengono spennellate di uovo, ma solo in corrispondenza del vertice di uno dei due angoli ottusi (quelli più grandi) così da renderlo appiccicoso e legare il vertice opposto del rombo di pasta arrotolato intorno al tubo di alluminio, perché poi durante la frittura non si apra. Lo strutto viene portato a una temperatura di 180°, e il cannolo lasciato prima a cuocere in superficie e poi immerso perché la forma si mantenga e la doratura sia omogenea. Alcuni preferiscono utilizzare olio o una miscela di strutto e olio, ma la conseguenza di un’operazione di questo tipo è un grasso che non mantiene la stessa temperatura in tutti i punti della friggitrice.
Frittura… farcitura. La farcia di un cannolo è una ricotta fresca, di pecora, lavorata con lo zucchero affinchè diventi liscia e spumosa come panna ma non stucchevole, per far apprezzare il sapore della ricotta e sposarsi con la cialda in un matrimonio di equilibrio e armonia.
C’è chi usa la ricotta vaccina, che ha un sapore meno intenso e “selvatico”, ma essendo meno grassa richiede più zucchero… l’eterna lotta fra il gusto e la linea! C’è anche chi, come a Dattilo, lascia la ricotta quasi grezza. Infine, si aggiungono le gocce di cioccolato e/o i canditi. A completare, una generosa spolverata di zucchero a velo e una scorzetta di arancia candita, o una ciliegia candita, del pistacchio a granella o altre goccine di cioccolato. Categoria a parte sono i blasfemi, che farciscono la cialda con crema o gelato! De gustibus…
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