Qualche metro dopo l’ultimo capillare d’acqua, il deserto tornava ad avere la meglio tanto da sembrare impossibile poter trovare vita in quelle condizioni.
Avevo appena lasciato la cittadina di Chincha, unico luogo di vita dopo parecchi chilometri di caldo e sabbia.
Proprio nel punto in cui si manifestava la più totale inospitalità iniziava nuovamente ad apparire il miraggio.
Qualche arbusto rinsecchito, e poi palme, campi di canna da zucchero, un camion col cassone colmo di pomodori brillanti e contadini industriosi che lavoravano la terra.
E’ Ica, il miracolo agricolo peruviano.
Un’area capace di competere con i grandi latifondi europei e americani in quanto a produzione ed è famosa in particolare per asparagi, carciofi, fave e zucche oltre naturalmente che per l’uva, il mango e la papaya che con il sole intenso e costante e la giusta dose di acqua riescono a raggiungere dimensioni e dolcezza perfette.
La presenza di acqua è come un dono divino in questo deserto estremo, dove cresce la vite.
Ica è una fertile oasi che dista 300 chilometri dalla capitale, 50 dalla costa ad una altezza di appena 400 metri sul livello del mare.
Tutta la zona fu formata in epoca preistorica dallo scongelamento di ghiacciai immensi, che, sciogliendosi, trascinarono a valle enormi estensioni di sabbia e sassi, elementi che formano tuttora il sottosuolo di questo terreno alluvionale.
La prima esperienza tra cantine la feci dopo poche ore dall’arrivo, contrattando con un taxi una visita alla principale “Bodega” industriale della zona.
Uscimmo dalla città percorrendo strade sterrate che si intrecciavano tra i campi e i borghi di periferia, e lì vidi il primo impianto, con tante giovani barbatelle che cercavano di resistere alla torrida canicola; ci stavamo avvicinando alla famosa Bodega Tacama “la primera viña del Perù”.
E’ una azienda vinicola che vuole fare le cose in grande affidandosi alla migliore tecnologia e strizzando l’occhio allo stile francese, dal quale trae evidente ispirazione.
Producono un’ampia gamma di vini e, a sorpresa, noto che la maggioranza sono quelli secchi secondo un gusto più internazionale e meno locale (il consumatore medio peruviano infatti non è minimamente propenso alla bevuta secca, preferendo una bocca dolce, spesso stucchevole, anche nei vini).
Aspettammo nel salone una decina di minuti, giusto il tempo che si radunasse un certo numero di persone per poter far partire la visita.
Nella hacienda si avvertiva chiaramente l’impronta coloniale.
I muri erano di color rosa carne e un’area era dedicata esclusivamente all’allevamento di cavalli da competizione.
Ci accolse una signora di mezza età con un cappello bianco a tesa larga e un gilet scuro indossato su una camicia bianca.
Camminammo attraverso un largo patio dove erano disposte in ordine centinaia di barbatelle accolte ciascuna in un sacchetto nero e innaffiate da un sistema di irrigazione automatico; delle 70 varietà coltivate in azienda la maggior parte proviene dalla Francia e vengono costantemente analizzate e migliorate.
Oltre alle piccole viti, si coltivano anche azalee e gerani.
Salimmo sul campanile, non molto alto, ma dal quale comunque si riusciva a dominare il panorama circostante, che accoglie circa 200 ettari di vigneti.
Mi presi qualche secondo per fotografare l’immagine di quell’ambiente insolitamente rigoglioso, a soli 10 gradi dall’equatore dal quale nascono i cosiddetti “vini del deserto”.
Colpiva l’attenzione soprattutto il modo con cui era stato lavorato il terreno.
Pareva che le strade in terra battuta che lo attraversavano fossero sopraelevate, ed in effetti lo erano lasciando i filari in una conca rettangolare profonda un metro.
E’ questa una tecnica “a risaia” antichissima, adottata dagli spagnoli direttamente dalle popolazioni precolombiane autoctone con lo scopo di immagazzinare grandi quantità d’acqua in una determinata superficie in pochissimo tempo evitando sprechi.
Più tardi, nel salone degli assaggi, trovai affissa una testimonianza storica mirata a rivendicare il motivo di quel sottotitolo affiancato al nome della cantina: la primera viña del Perù.
In un manifesto era citato un passaggio del libro “Historia del Vino Cileno” di Josè del Pozo, uno studioso che non conosco ma la cui opinione può essere verosimile che dice:
“la diffusione della vite fu rapida. In Messico si piantò fin dai tempi di Hernàn Cortés, intorno all’anno 1520, dopo la conquista del Messico.Più tardi passò al Perù, dove i nomi di Bartolomè de Terrazas e Francisco de Carabantes, nella decade attorno all’anno 1540, figurano tra i pionieri della viticultura in questo paese. Carabantes creò il Vigneto di Tacama, nell’oasi di Ica, al sud di Lima, che è il più antico del Perù. Da lì, la vite si diffuse verso Chile e Argentina”.
Parlando di vite, emblematica è la storia dell’adattamento di alcune varietà europee, secondo quanto mi narrò il titolare della seconda bodega visitata, che si chiamava, manco farlo apposta El Catador, L’assaggiatore.
Una delle varietà più coltivate è la quebranta, che viene usata in particolare per produrre un vino da distillare in Pisco.
Evoluzione della varietà negramoll delle isole Canarie, fu forse una delle prime ad essere coltivate in queste zone ed oggi è considerata autoctona perché dopo centinaia di anni di evoluzione e adattamento al suolo delle regioni di Ica, è cresciuta talmente tanto in dimensioni da “quebrar”, rompere il tralcio che la sosteneva.
Da qui il suo nome, quebranta appunto, un vitigno con caratteristiche nuove, diverse dalla varietà di partenza.
Immagino la ricchezza di polifenoli che una simile uva può contenere nella polpa e nelle bucce e realizzo che la vera ricchezza vitivinicola del Perù, non è il vino in quanto tale, ma il Pisco, il distillato di vino la cui caratteristica qualitativa più importante consiste proprio nel poter ritrovare al gusto e all’olfatto le caratteristiche varietali dell’uva con cui è stato prodotto; compito sicuramente facilitato dalle prorompenti qualità dell’uva coltivata.
Mi rendevo conto che il Perù, pur affacciandosi al panorama vinicolo americano con entusiasmo, soffre in quanto a qualità per quello che invece dovrebbe essere considerato un bene inestimabile come la ricchezza del suolo e del clima.
Notavo che condizioni talmente ideali per l’agricoltura erano un limite alla produzione di vino di qualità, in quanto era praticamente impossibile contenere la crescita e lo sviluppo dei grappoli, con un formale aumento quantitativo di zuccheri, polpa e altrettanti fattori che sicuramente darebbero del filo da torcere anche all’enologo più esperto in cantina e allo stesso tempo capivo, che la vera ricchezza vitivinicola, non era data dal vino, ma dal suo distillato principe: il Pisco.
La bodega, si trova in un antico fondo chiamato Tres Esquinas; fondata nel 1856, oggi é costituita da 10 ettari di terreno vitati e produce Pisco a livello artigianale venduto direttamente ai visitatori o nel mercato interno.
Conservo ancora oggi un biglietto da visita di questa struttura che mostra le specialità gastronomiche che propongono nel ristorante e incastrato tra queste immagini e una elegante scritta rossa del nome del locale c’è il marchio della “Ruta del Pisco” rappresentato da un anfora in terracotta nel quale si usava stivarlo.
Col titolare, un assaggiatore qualificato di Pisco, analizzai le varie fasi della degustazione di questo particolare distillato.
Un bravo catador riconosce fin da subito, dal colore e dai riflessi in superficie se il prodotto è valido o meno.Supportato dalle analisi chimico fisiche del tecnico, si deve constatare la trasparenza più assoluta senza alcun riflesso verdognolo, che potrebbe derivare dal rame, e ne identificherebbe chiaramente un difetto.
Interessante notare il primato che il Pisco peruviano ha rispetto a tutti gli altri distillati del mondo.Normalmente questi si attestano su una gradazione alcolica di partenza tra i 70 e gli 80 gradi e vengono portati a 40 aggiungendo acqua distillata; nel caso del Pisco questo processo non avviene ma si effettuano due livelli di distillazione, il primo individuando un “cuore” con una gradazione media intorno ai 73° che forma la parte di acquavite che verrà allungata successivamente con un’altra distillazione di prodotto che si attesterà sui 28° circa. Per quest’ultima operazione occorrerà aggiungere una piccola percentuale di mosto fresco alla coda della prima distillazione, fermatasi intorno ai 40°.A questo punto si potrà utilizzare il risultato della seconda distillazione per abbassare il grado alcolico della prima, ed è in questa operazione che si realizza l’unicità del Pisco: un prodotto finale di 41° medi ottenuto senza diluizione con acqua, quindi preservando interamente tutti gli esteri dell’uva di origine. Come fase finale, sono necessari almeno 3 mesi di affinamento in barili di acciaio o vetro, ma non legno, tanto preferito dalle acquaviti europee, che avrebbe l’effetto di alterare le caratteristiche intrinseche del prodotto.
Quest’ultima caratteristica, lo fa distinguere dal brandy, distillato di vino che invece prevede un invecchiamento più marcato.
La degustazione si svolge in maniera molto simile a quella del vino.
Valutata la trasparenza nella fase visiva, si passa alla fase olfattiva fortemente condizionata dalla tipologia di uva utilizzata, che può appartenere sia a varietà aromatiche come l’ uva Italia, che appartiene alla famiglia dei moscati, sia non aromatiche come la quebranta.
Tra le tipologie di pisco, esiste anche una detta mosto verde, nel quale il distillato è ottenuto partendo da un mosto non completamente trasformato in vino.
In quest’ultimo caso gli aromi sono ancora più netti e intensi e possono spaziare in generale dall’acqua di rose, mela verde, etere, agrumi, frutti tropicali.
A livello gustativo, si cerca la conferma in fase gusto olfattiva di quanto riscontrato al naso.
Esiste anche una versione di pisco detto “Acholado” che è ottenuto mischiando indistintamente i vari vitigni.
Questo prodotto è quello che trova maggiore impiego nella miscelazione, per la realizzazione di cocktail tra cui il famoso Pisco Sour e il Chilcano.
Tra i vini assaggiati ricordo un interessante Gran Tinto tres cepas, un prodotto classico, ottenuto da un uvaggio di Malbec, Tannat e Petit Verdot, dove a mio avviso determinante è l’apporto tannico del tannat, che supporta la crescita fenolica delle uve molto mature apportando il necessario tannino.
Fruttato non troppo eccessivo, mediamente bilanciato in bocca.
Sempre nella cantina di Tacama si produce con distillazione continua il Pisco “Demonio de los Andes” un prodotto basico reperibile anche in Italia.
Nella bodega el Catador, tutti i Pisco assaggiati erano eccezionali, ma purtroppo introvabili nel nostro mercato, per cui, rimane solo il bel ricordo!
( Fonte Francesco Antonelli )
Gravi conseguenze per chi lo consuma. Un’operazione clamorosa ha portato alla luce una rete…
L'undicesima edizione del Champagne & Sparkling Wine Championship 2024, la manifestazione che si è svolta…
AZIENDA MORIS FARMS Massa Marittima, Grosseto, Italia 58024. Tel. +39 0566 919135 Fax +39 0566…
L’Associazione Italiana Sommelier Roma, dopo quasi mezzo secolo di attività nella capitale, sceglie di elevarsi…
Ma la vendemmia può continuare Un profondo rosso da 38,8 milioni di euro di debiti.…
CANTINA NURAGHE CRABIONI Loc. Su Crabioni – Sorso (SS) Email: info@nuraghecrabioni.com Web : https://nuraghecrabioni.it/contatti/ Cantina…