L’imprenditore leader nella produzione del vino in Irpinia e docente universitario a Foggia punta l’indice contro le politiche pubbliche: «Tutto è sulle spalle delle imprese, con una spesa più efficiente ed efficace della Regione, tante aziende locali potrebbero sfondare. Non c’è percezione, né cultura d’impresa». Il Comune di Avellino? «Non esercita alcun ruolo di trascinamento, né credo possa svolgerlo»
Leader indiscusso della produzione enologica nella terra dei tre marchi Docg, ma anche docente di Economia e gestione delle imprese all’Università di Foggia, Piero Mastroberardino
analizza lo stato di salute del tessuto produttivo irpino e, seppure in modo pacato, punta l’indice con decisione contro un sistema pubblico-istituzionale, dalla Regione Campania fino alle istituzioni europee, incapace di fornire sostegno, risposte e soprattutto soluzioni, che siano in linea con i tempi del mercato. All’Irpinia non basta di certo la sua vocazione agroalimentare, se persiste la debolezza strutturale di un sistema di imprese essenzialmente piccole, sulle cui spalle gravano lacci e lacciuoli burocratici e quella che Mastroberardino definisce «l’assenza di una spalla forte nelle istituzioni». «Non c’è percezione, né cultura di impresa all’interno della pubblica amministrazione. Non se ne comprendono i tempi e le esigenze». – accusa – Alla Regione Campania, quindi, imputa una spesa poco efficiente delle risorse pubbliche: «Esistono tante aziende che sono a metà del guado. – riflette – Con un migliore contributo pubblico potrebbero sfondare». E non manca il passaggio sul comune di Avellino: «Non vedo un ruolo di trascinamento verso gli altri enti, né credo sia in grado di svolgerlo».
Professor Mastroberardino, partiamo dal dato positivo di ieri. Si va verso l’importante riconoscimento ministeriale per il Consorzio di tutela dei vini irpini. Ma, come dire, non si vive di solo vino. La vocazione agroalimentare dell’Irpinia può bastare per risollevarne le sorti economiche?
«In realtà siamo deboli anche nel comparto del vino. La debolezza endemica della struttura imprenditoriale, non solo dell’Irpinia, ma dell’intero Paese, nasce da alcuni fattori. Quello dimensionale, e cioè siamo tutti troppo piccoli. E quello della patrimonializzazione, cioè di aziende che non hanno un buon equilibrio patrimoniale. Poi c’è l’aspetto strategico-competitivo: pesi burocratici tali che non consentono di affrontare le problematiche con i tempi richiesti dal mercato».
I Famosi lacci lacciuoli di cui si parla da decenni. Ogni politico, compreso il governatore De Luca, ha sistematicamente promesso di rimuoverli. E invece?
«Da questo punto di vista, il settore vitienologico è uno dei più martoriati dalla nostra burocrazia. Sia perché il vino contiene alcol, e quindi c’è un anche un impatto sociale di cui tener conto, in relazione alle modalità di consumo ed ai possibili abusi. Sia perché è anche un settore complicato, in quanto figlio della Politica agricola comune che, da 1970, ha tentato di governare il rapporto tra domanda e offerta, produzione e mercato e, fin dall’inizio, ha mostrato i suoli limiti. L’ Europa, da sola, non poteva governarlo, in quanto i traffici internazionali superano i vincoli europei. E così uno sviluppo armonico della produzione, non si è potuto mai determinare: spesso abbiamo avuto crisi di sovrapproduzione; altre volte di sottoproduzione».
Nemmeno dal punto di vista delle politiche agricole, insomma, siamo all’avanguardia in Campania. Giusto?
«Ovviamente, la provincia, di per sé, non può incidere. Gli indirizzi sono comunitari, e vengono recepiti dalle norme nazionali. La Regione, però, potrebbe incidere sulla gestione dei fondi. E probabilmente, su questo, si potrebbe fare qualcosa in più, per rendere più efficace ed efficiente la spesa pubblica. In settori come questi, ci sono aziende che sono a metà del guado, ma che potrebbero sfondare sul mercato e necessitano ancora un piccolo trampolino. Queste aziende, con un piccolo incremento sull’efficacia dell’intervento pubblico, potrebbero sfondare».
Guardandomi attorno, non posso dire di vedere questo grande fermento di ripresa economica. C’è ancora moltissimo da fare
I recenti dati Istat sul Mezzogiorno dicono, come molti giornali hanno sintetizzato, che la Campania starebbe trainando lo sviluppo del Mezzogiorno. In questo scenario. Le risulta un miglioramento sostanziale delle performance anche in Irpinia, o – come dimostrano invece i dati sull’occupazione – restiamo ancora al palo?
«Io sono un imprenditore che crede nella sua terra e continua ad investire con convinzione nelle risorse del suo territorio. Non cerco le opportunità dove compaiono, ma mi impegno per la mia terra, in omaggio a quanto fatto da mio padre e, prima di lui, da suo padre. Non mi sentirei di fare l’imprenditore in Toscana o Puglia, e voglio che questa terra ottenga i suoi meriti e i suoi riconoscimenti. Dopodiché, guardandomi attorno, non posso dire di vedere questo grande fermento di ripresa economica. Non ho questi segnali e, dal mio piccolo osservatorio imprenditoriale, non mi sento di riscontare questo sasso nello stagno. Siamo ancora ad un fenomeno poco incisivo. Forse ci sono altre zone del paese che hanno rellentato, e così noi sembriamo andare più veloce. Ma c’è ancora tanto da fare».
Ovviamente torniamo all’inadeguatezza delle risposte pubbliche.
«Con tutta l’amicizia per tanti esponenti del mondo politico, a noi manca la spalla istituzionale con la quale interagire per comunicare le vere risorse del territorio. Non c’è percezione, né cultura di impresa all’interno della pubblica amministrazione. Quindi non si comprende quali sono i tempi, le esigenze e le modalità attraverso le quali sviluppare un processo di riposizionamento strategico di un settore imprenditoriale. Se mancano questi elementi, tutto resta sulle spalle delle imprese. E nel contesto di cui ho parlato all’inizio è chiaro che la partita è più dura».
La Regione potrebbe qualificare la sua spesa. Con un contributo migliore del pubblico, tante realtà irpine potrebbero sfondare. Ma è tutto sulle loro spalle
A proposito di scelte politiche, che pensa della decisione del Comune di Avellino di uscire dal Consorzio delle aree industriali irpine?
«Non lo saprei dire, anche perché non mi sono interessato direttamente della vicenda. Né conosco i retroscena. So che le amministrazioni locali si dibattono in un enorme problema identitario e di governance. Per cui, anche a livello locale, assistiamo ad una presa di distanza ed a uno sradicamento rispetto agli atteggiamenti di chi gestisce, sempre troppo lontani da quello che la gente sente».
Crede che il capoluogo stia abdicando alla sua funzione di guida anche in termini di sviluppo dell’Irpinia?
«Il capoluogo è nel mirino e viene spesso messo alla berlina nel dibattito locale. Non credo che in questo momento stia esercitando un ruolo di trascinamento sulle altre amministrazioni. Né che sia in grado di farlo. Ed è strano, perché poi Avellino è una città di 50.000 abitanti. Nel mondo si gestiscono metropoli da 30 milioni di persone e, bene o male, funzionano. Vedere una città che ancora adesso, dopo tanti passaggi di amministrazioni, è ferita dappertutto da interventi e cantieri aperti e mai conclusi, totalmente inattivi per anni e anni, fa chiedere legittimamente a qualsiasi cittadino: che cosa stiamo facendo?».
Grazie professore.
«A lei».
( Fonte Orticalab )